Prima di tutto vorrei ricordare che il sottoscritto, come tutti voi, dispone esclusivamente di notizie di stampa quanto meno partigiane. Non penso dunque di sapere come effettivamente stiano le cose, ma semplicemente di suggerire una serie di riflessioni che cercano di trascendere l’animosità e la partigianeria insiti nel nostro modo di rapportarci alla politica.
Aleppo
Mentre prosegue la “varsavizzazione” dei quartieri ribelli di Aleppo, i rapporti fra USA e Russia si sono ulteriormente deteriorati. Tanto che da molte parti, anche autorevoli, si parla ormai apertamente di un ritorno alla guerra fredda. O peggio.
Apparentemente, la causa di tanto disastro sarebbe lo scontro fra le truppe di Assad (sostenute da Mosca) e varie milizie ribelli, fra cui l’Esercito Siriano Libero ed i curdi dell’YPG (entrambi sostenuti dagli Stati Uniti, ma nemici fra loro; l’ESIL è appoggiato anche dalla Turchia che è invece contro l’YPG). Certo non è una sorpresa per nessuno che l’accordo ufficioso anti-ISIL fra USA e Russia sia saltato appena il “califfato” ha cessato di essere pericoloso per i rispettivi interessi (l’ISIL ad Aleppo non c’è più dal gennaio 2014). E neppure è sorprendente che sia saltata l’alleanza fra YPG e Assad, nonappena i due si sono incontrati sul terreno. E non sappiamo neppure quanto sia effettivo il controllo dei “pezzi grossi” sui rispettivi “clienti”.
Ma, mi domando, è mai possibile che due dei paesi più importanti del mondo arrivino ai ferri corti per una fetta in più o in meno di quello che era uno stato fallito già prima che 5 anni di guerra lo riducessero in pezzi? Vista così, sembra davvero poco credibile. Tanto più che sia gli americani che i russi dovrebbero aver imparato la differenza che c’è fra conquistare un territorio e controllare il medesimo.
Proviamo allora ad allargare lo sguardo.
Il Medio Oriente
Accanto alla Siria c’è l’Iraq, dove l’ultima città importante in mano all’ISIL è Mossul, da mesi sotto un lasco assedio. Da sud premono i governativi, sostenuti da fanterie iraniane ed aviazione USA; a nord ci sono i curdi sostenuti dai turchi. Se Turchia e USA continuano (per ora) ad essere alleati, i loro protetti (rispettivamente curdi e governativi iraqueni) sono invece nemici da sempre.
Allarghiamo ancora un poco l’orizzonte e troviamo Turchia, Iran, Arabia Saudita ed Egitto; tutti in piena ebollizione.
La Turchia è stata per 70 anni l’alleato di ferro dell’Occidente, ma dai tempi dell’invasione USA dell’Iraq, nel 2003, l’alleanza si è incrinata ed oggi appare fatiscente. La progressiva islamizzazione del regime ormai quasi dittatoriale di Erdogan e la repressione seguita al fallito colpo di stato del 15 luglio scorso, hanno precipitato la situazione.
Intanto l’esercito turco ha occupato fette di Siria per impedire che fossero occupate dall’YPG e dagli americani.
L’Iran, dopo essere stato l’inventore dell’integralismo islamico post-moderno e l’arcinemico dell’occidente per decenni, sta rapidamente riallacciando rapporti di collaborazione anche militare con USA ed EU. Ma l’Iran mantiene anche buoni rapporti con la Russia e sostiene Assad, sia pure in modo sempre più tiepido, man mano che i dittatore riacquista potere.
L’Arabia Saudita sembra sul’orlo di un’implosione, sia sul piano interno che su quello internazionale. Dopo aver demolito mezzo Yemen senza riuscire a vincere la guerra, si è vista tagliare gli aiuti militari proprio dagli USA che la hanno sempre sostenuta ad oltranza. E mentre il governo saudita espelle o incarcera buona parte degli esponenti yemeniti che fino a ieri erano suoi alleati, qualcuno spara contro le navi USA che incrociano a largo dello Yemen (padellando).
L’egitto, ex campione dell’Unione Sovietica ai tempi di Nasser e poi fedelissimo degli USA, è sicuramente sull’orlo di un’implosione. Probabilmente il regime militare rimane in sella solo grazie alla terroristica repressione di ogni forma di dissenso. D’altronde, l’alternativa sarebbe un altrettanto feroce regime islamista. Al Sisi lo sa e, pur restando alleato degli USA, lancia strizzatine d’occhio a Mosca in cerca di conforto. Nel frattempo la popolazione egiziana cresce al ritomo di quasi due milioni di persone all’anno. Le conseguenze sono inevitabili e ci saranno 100 milioni di persone disperate ai nostri confini. Sarebbe bene cominciare a pensarci.
Dunque il quadro medio-orientale appare in una fase caotica (in senso sistemico). Vale a dire una fase in cui tutti gli elementi principali fluttuano senza una regola identificabile e possono quindi essere attratti in una delle molte direzioni possibili anche da spostamenti minimi di fattori interni od esterni.
Le grandi potenze
Allargando ancora il campo, troviamo che lo scontro fra Russia e NATO non è limitato al Medio Oriente. Indipendentemente dalla complessa genesi della crisi ucraina, non c’è dubbio che la linea di demarcazione fra la parte di questo paese che gravita verso est e quella che gravita verso ovest è tutt’altro che pacificata. Sparatorie e scambi di cannonate sono quotidiani e, se la situazione rimane praticamente immutata, è solo perché nessuno dei contendenti ha il fiato di tentare un’offensiva. Per Putin, l’intervento in Siria ha probabilmente anche la funzione di attirare l’attenzione dei nazionalisti russi su di un fronte più remoto, ma la questione del Donbass rimane una ferita aperta che può suppurare in qualunque momento. Anche in considerazione dello scarso controllo che igoverni esercitano su parte delle milizie impiegate in entrambi i campi.
E veniamo dunque a dare un’occhiata ai due contendenti principali (o apparentemente tali): USA e Russia.
I primi sono stati paragonati ad un “guscio di acciaio vuoto dentro”. In effetti, se la potenza militare statunitense attuale non teme confronti, la società che questa forza protegge si sta disintegrando e credo che il livello della campagna presidenziale in corso sia un buon indicatore in questo senso Di qui la necessità per il governo di compattare il paese mantenendo uno stato di allerta crescente, anche a rischio di aumentare il pericolo reale. Specialmente a ridosso di elezioni in cui entrambi i candidati hanno deciso di giocare il ruolo dei “duri”.
Se Atene piange Sparta non ride (o viceversa) si diceva un tempo. La Russia post sovietica ha rimesso insieme una variante di economia capitalista basata essenzialmente sull’esportazione di materie prime in Europa. Ma dal 2008 la situazione ha ricominciato a peggiorare e dal 2014 è precipitata. Non tanto per le sanzioni occidentali, quanto per la crisi economica dei loro principali clienti (noi) e del mondo intero, che si è portata dietro il crollo del prezzo del petrolio. Non dimentichiamoci inoltre che, malgrado la Russia sia oggi il principale esportatore mondiale di energia, la maggior parte dei suoi giacimenti di petrolio sono post-picco. Questo significa costi crescenti ed EROEI calanti.
I giacimenti di gas sono invece irreversibilmente collegati all’UE. Mosca sta cercando di sviluppare i giacimenti di gas siberiani collegandoli alla Cina, ma la nuova rete di metanodotti dovrebbe essere costruita in tempi di migragna e di ritorni rapidamente decrescenti, oltre che su terreni in parte resi instabili dal riscaldamento climatico. Non sarà una cosa semplice, né veloce.
Anche in questo caso, solleticare il proverbiale patriottismo russo è un modo semplice e sicuro di compattare il paese, specie se alla guida c’è un personaggio particolarmente popolare come Vladimir Putin. Ma se Putin è molto popolare, il suo partito non lo è affatto e questo pone il capo nella delicata posizione di dover costantemente rinfrescare la sua vernice di uomo duro e vincente. Un gioco che diventa sempre più pericoloso, man mano che i margini di manovra si assottigliano.
Mentre tutti gli occhi guardano la Russia europea, cosa succede dalla parte opposta del pianteta? Succede che la Cina si trova anch’essa nelle peste di una crisi economica che si va cronicizzando. Anche se formalmente il PIL continua a crescere, la gente si va rendendo conto che la festa è finita e diventa nervosa. Pronta anche qui un’altra iniezione di nazionalismo e di paura, con una serie di azioni per rivendicare alcuni scogli. Ma dietro queste sceneggiate, Pechino sta mettendo in atto una serie di operazioni molto più consistenti. Nel Mar Cinese e nell’Oceano Indiano sta infatti stabilendo una serie di basi logistiche e militari che (giustamente) spaventano i suoi vicini.
Se ne è accorto Obama che, da qualche anno, ha avviato una complessa politica di contenimento, saldando un’alleanza fra molti degli stati più o meno direttamente minacciati. Da Giappone, Korea del Sud e Taiwan, fino al Vietnam ed alle Filippine (con una minaccia di Duterte di cambiare campo se non gli lasciano ammazzare i 3 milioni di filippini che vuole eliminare). Ma ultimamente anche Indonesia ed India sembrano aver deciso che la Cina è più pericolosa degli USA.
Dunque, mentre l’espansione cinese verso il mare sta incontrando resistenza, verso il continente le porte le si spalancano. Le difficoltà in cui annaspa la Russia favoriscono infatti la Cina che si sta letteralmente comprando d’occasione le risorse siberiane, tanto quelle russe che quelle dei suoi satelliti asiatici. Per ora fa eccezione il Kazakistan che tiene fuori i cinesi, ma non i russi.
Dunque, abbiamo una potenza in declino, erede una notevole forza militare, ma senza più un sistema industriale in grado di sostenerla. Questa, per difendere i suoi confini occidentali (o comunque quelli che considera tali), sta svendendo i suoi confini orientali dove una potenza prossima al suo picco sta cercando disperatamente spazio.
Il seguito alla prossima puntata.
PS. Aggiornamento dell’ultim’ora: pare sia iniziato l’attacco dei governativi iraqueni a Mossul. Il rischio che vada come ad Aleppo è molto alto. Così come è molto alto il rischio di uno scontro diretto fra Turchia e Iraq per il controllo di parti della città.
Un commento su “Guerra fredda, calda o tiepida? – prima puntata.”