Il terremoto nel centro Italia mi ferisce in maniere che non comprendo ancora appieno. Sono reduce da un bellissimo viaggio in bici che ci ha portato, un piccolo gruppo di amici, molto in prossimità delle zone colpite. È un viaggio di cui vorrei conservare bei ricordi, ma ora vedo immagini di paesi rasi al suolo, luoghi dove pochi giorni prima ho pernottato (Amandola) colpiti da crolli, un conto delle vittime che continua a salire. Gente, spesso, come me pochi giorni fa, in vacanza.
Un pezzo del mio cuore è in quei paesi, in quelle terre. La mia famiglia possiede una casa, in un minuscolo paesino sperduto fra le montagne umbro-marchigiane. Una casa antica ristrutturata con molti sacrifici, con enormi mura in pietre di fiume, capaci di tener fuori il freddo invernale al pari del caldo estivo. Abitandovi riesco a sentire un legame indissolubile con le epoche e le generazioni che mi hanno preceduto. Una continuità temporale di sentimenti ed intenti che costantemente guida le mie scelte.
Quella casa, quel paese, stavolta non sono stati toccati. L’angelo della morte li ha ancora una volta sfiorati, passando oltre. La stessa cosa non è accaduta ad Amatrice, ad Accumoli, ad Arquata del Tronto. Paesi del tutto simili, per storia ed architettura, ora praticamente rasi al suolo. Ieri ho passato quasi un’ora sulla pagina internet di Google Street View ad osservare le prospettive stradali di Accumoli ed Amatrice. Immagini di disarmante normalità e serenità, a fronte di quanto avvenuto solo poche ore prima. Guardavo le foto e pensavo: di tutto quello che vedo non è rimasto niente.
Mi era successa una cosa analoga anni prima. Nel 1991 partecipai ad un evento ciclo-turistico intitolato “Pedalata dei due mari”. Attraversammo in una settimana tutto il centro Italia, da Giulianova (in Abruzzo), al Parco dell’Uccellina (in Toscana). Mentre pedalavo scattavo foto (all’epoca pratica molto meno diffusa di oggi) su pellicola diapositiva. Immagini che finirono col restituire un discreto reportage dell’evento.
L’iniziativa fu replicata dieci anni dopo, nel 2001, percorrendo il tracciato in senso inverso. Anche in quell’occasione scattai molte foto. Ci trovammo ad attraversare le zone dell’Umbria colpite dal terremoto nel ’97: Assisi, Sellano, Preci. La ricostruzione era già abbastanza avanti, anche se parte della popolazione viveva ancora nei container della Protezione Civile. Viaggiando la cosa non mi turbò più di tanto.
Sulla strada per Norcia, in prossimità di Triponzo, mi fermai a scattare una foto a quello che pensai come “un bel paesino diroccato”. Fui colto dal fascino delle antichità in rovina, un po’ come Goethe nel ‘700. Immaginavo il paese microscopico abbandonato dai suoi abitanti che lentamente, nel corso degli anni, si sbriciola a causa degli eventi atmosferici. Nel Lazio ci sono molte città di questo tipo: Galeria, Monterano, abbandonate a causa di epidemie di peste ed ora completamente cadenti.
Al ritorno dal viaggio, una volta riviste le foto appena scattate, mi venne voglia di riguardare anche quelle del viaggio precedente. Le inserii nel proiettore, ma poco dopo l’avvio mi immobilizzai. C’era una foto, scattata dieci anni prima, praticamente dallo stesso punto di ripresa e con la stessa identica inquadratura, dove il paesino diroccato era ancora integro. Provai un tuffo al cuore.
Dieci anni prima ero stato lì, c’erano case, abitanti, umanità, sogni, speranze. Dieci anni dopo di tutto questo restavano solo macerie, pietre ammucchiate, sogni distrutti, abitazioni crollate. La vita e poi la morte, in un passaggio immediato, istantaneo, catastrofico.
La tragedia di ieri ci colpisce due volte. La prima per il dramma in sé, la perdita di vite, di storia, di memoria, di identità. La seconda perché avviene in un momento dell’anno dedicato al riposo, allo svago, alla leggerezza. Leggerezza che abbiamo atteso tutto l’anno, ed ora viviamo con un senso di colpa, con una tristezza di fondo che ci priva delle risorse psicologiche ed emotive per ripartire col lavoro quotidiano. Poca cosa, sicuramente, rispetto a chi ha perso la casa, i propri familiari, la propria stessa vita. Nondimeno un dolore che si estende ad una nazione intera. Un’ombra che si allunga sul futuro.
“Il mio intelletto sogna di conoscere il mondo, il mio cuore sogna le montagne”… scrivevo pochi giorni fa mentre spingevo sui pedali nella salita che mi avrebbe portato al lago di Fiastra. Quelle montagne, ora sappiamo, non sono semplicemente maestosi massicci coperti da vegetazione, superbi, solitari ed isolati. Sono il prodotto di linee di faglia tra placche continentali che spingono le une sulle altre. Il risultato di millenni di lento innalzamento, con continui assestamenti, terremoti, frane.
Il processo che ha modellato le montagne che tanto amo è un processo di creazione/distruzione ancora in corso, vitale e al tempo stesso catastrofico. E a noi fragili umani, con le nostre esistenze effimere (rispetto ai tempi geologici) può esser concessa la benedizione di sfuggire alle sue manifestazioni più devastanti.
E la maledizione di dovervi assistere, impotenti.