(post originariamente pubblicato sul blog Mammifero Bipede)
Da tempo ragiono di scrivere sulle ideologie, o meglio su quanto il nostro modo di pensare e di relazionarci agli altri ed al mondo dipenda da esse. Parafrasando un celebre aforisma di Ascanio Celestini (che l’autore dedica al razzismo): “le ideologie sono come il culo, puoi vedere quello degli altri ma non sei in grado di vedere il tuo”.
Di fatto le ideologie semplificano una realtà complessa rendendola in qualche modo gestibile, il problema è che facilmente descrivono un quadro sbagliato. Le ideologie sono, tipicamente, delle proiezioni di sé: si abbracciano perché rappresentano il proprio sentire ed il proprio modo di relazionarsi agli altri, molto spesso quello che abbiamo appreso con l’educazione.
Così, ad esempio, se siamo cresciuti nella convinzione che la cooperazione sia eticamente superiore alla competizione abbracceremo preferibilmente un’ideologia “di sinistra” teorizzante l’uguaglianza tra gli uomini, mentre se siamo stati allevati in un contesto culturale dove a dominare è la competizione saremo più facilmente sedotti da un’ideologia “di destra”.
Poi arrivano gli antropologi e fanno piazza pulita di tutti i costrutti ideologici elaborati nel corso dei dieci, quindicimila anni di quella che chiamiamo civiltà (termine che dal punto di vista etimologico sancisce solo il passaggio culturale che da popolazioni nomadi ci ha reso stanziali ed inurbati), riportandoci alle radici di quello che è la condizione umana.
Riguardo al lavoro di Jared Diamond ho già avuto modo di dilungarmi in passato parlando di Armi, acciaio e malattie e di Collasso. In questo suo ultimo lavoro (2012) lo studioso mette su carta una vita di ricerche partendo dalla domanda “Cosa possiamo imparare dalle società tradizionali?” La prima risposta che mi viene da dare è: a demolire le ideologie.
Uno dei primi argomenti trattati nel volume riguarda la guerra, termine che solitamente associamo ai conflitti tra nazioni e normalmente non ci verrebbe da associare agli scontri tra piccole tribù. Diamond dimostra come il concetto di conflitto armato tra gruppi umani sia facilmente scalabile ai piccoli aggregati, e non sia improprio associarlo agli scontri tra tribù, gang rivali o cartelli per il controllo di produzione e traffico di droga.
La guerra, il conflitto, è una condizione pressoché costante nelle relazioni tra gruppi umani confinanti, perfino tra tribù che normalmente intrattengono rapporti commerciali ed hanno scambi che coinvolgono relazioni parentali (mogli o mariti che si trasferiscono da un gruppo all’altro). Le guerre, piccole e grandi, prendono il via da situazioni pregresse, insoddisfazione, torti subiti, dispute territoriali, e coinvolgono dalle poche decine di individui ad intere coalizioni di tribù.
La natura non gerarchica dei piccoli aggregati umani rappresenta in questo caso un limite, perché non esistendo capi dotati di reale potere (ma solo di una ‘autorità morale’) non c’è modo di imporre la cessazione delle ostilità alle “teste calde”, col risultato che le faide si propagano, con momenti di diversa violenza ed intensità, nel corso degli anni, fino a diventare endemiche.
Le modalità dei conflitti variano in base alla numerosità delle popolazioni coinvolte, siano esse piccole tribù, nazioni disperse identificate dalle etnie, città stato, imperi o nazioni moderne, ma il dato comune che emerge è che a giustificare il conflitto c’è la possibilità di ottenerne un vantaggio, quindi l’equilibrio tra guerra e pace è determinato dalla disponibilità di risorse.
Tipicamente, nota Diamond, le popolazioni che vivono in un regime di sussistenza precaria in habitat poveri di risorse non hanno vantaggi ad intraprendere relazioni conflittuali e tendono ad intrattenere coi vicini piccoli scambi commerciali che non sfociano in gesti violenti. Per contro gruppi umani stanziati in regioni ricche di risorse finiscono col sovrappopolare il proprio areale e ad entrare in conflitto con le popolazioni circostanti.
La guerra funge da meccanismo di riequilibrio demografico, riducendo le popolazioni in eccesso ed operando una redistribuzione delle risorse fra i superstiti, in attesa di un nuovo ciclo di abbondanza, seguito da aumento della popolazione, quindi crisi, conflitto per le risorse, ad libitum.
In quest’ottica le grandi ideologie del ventesimo secolo perdono il terreno su cui appoggiano: la guerra, la violenza, non sono più caratteristiche indesiderate dell’animo umano ma semplicemente reazioni istintive alla situazione contestuale, non già una questione di organizzazione sociale di un tipo o dell’altro. Organizzazione sociale che, se può influenzare la redistribuzione delle risorse, ha un controllo molto relativo sulla loro disponibilità.
La grande domanda di sempre, se gli esseri umani siano intrinsecamente ‘buoni’ o ‘cattivi’, trova quindi una risposta. La risposta è: entrambi. Gli esseri umani diventano pacifici o violenti a seconda della situazione contingente, contengono in sé il germe del bene e del male, ma le molle scatenanti sono al di fuori di essi, per quanto le ideologie che abbracciano possano spingerli in una direzione o nell’altra.
Questo mette la definitiva pietra tombale a molte ideologie, e sancisce il mio definitivo abbandono dell’ideale anarchico. Se fin qui ho sempre pensato che l’anarchia fosse il miglior metodo possibile di autogoverno ‘ma non con l’umanità attuale’, ora ho ben chiaro che l’umanità non potrà mai essere diversa dall’attuale senza diventare altro, un qualcosa che non saprei immaginare, un qualcosa che potrebbe non esistere mai.
Se quello che siamo, pur deformato da quindici millenni di cosiddetta civiltà, è il risultato di un processo evolutivo, in tal caso un’umanità differente, in grado di elaborare diversamente l’aggressività intra ed interspecie, avrebbe gli stessi vantaggi competitivi? Sarebbe in grado di sopravvivere?
Darwin ci direbbe di no, spiegando che la Natura ha selezionato il tipo umano più funzionale alla sopravvivenza, e che quel tipo umano siamo noi, con la nostra carica di aggressività. Sorge il dubbio che il desiderio tanto sbandierato di un mondo pacifico e felice sia anch’esso un semplice costrutto ideologico, assolutamente non calzante con la realtà.
Le società tradizionali hanno alle spalle millenni di elaborazione di forme di equilibrio con l’ambiente dal quale traggono sostentamento, equilibrio che comprende conflitti, infanticidio, in diversi casi cannibalismo (per far fronte a carenze proteiche). Per contro la nostra cultura, che pretende di imporre le proprie idee ed ideologie, è l’apoteosi del disequilibrio, dell’insostenibilità, della distruzione progressiva di risorse e suolo fertile, della sovrappopolazione di qualsiasi habitat senza alcun piano di rientro.
Non posso che concludere con la frase di Goya (nella rilettura pubblicata su Scripta Manent): il sogno della ragione genera mostri. Non il sonno, come la frase viene solitamente tradotta, bensì il sogno, la pretesa che l’intelletto possa piegare la realtà alle proprie cervellotiche elucubrazioni, costruendo modelli sociali che si rivelano poi inadeguati a gestire la complessità ed ambiguità dell’animo umano. Ed ancor meno la salute della biosfera e dell’intero pianeta.
Un commento su “Ideologie, utopie ed altri fantasiosi costrutti”