di Jacopo Simonetta
Preludio
Può la crescita economica rendere più poveri anziché più ricchi? La risposta è “SI”.
Il modello di base è quello della “crescita antieconomica” di H. Daly che spiega tanta parte del nostro presente e del nostro futuro. Rimandando al link per i dettagli, possiamo dire che per la fatidica dinamica dei ritorni decrescenti, superato un limite non chiaramente prevedibile, il cumulo dei costi indiretti supera fatalmente quello dei vantaggi diretti. Da questo punto in poi, la crescita economica può anche continuare, ma rende la gente sempre più povera, anziché sempre più ricca. Ma perché mai uno dovrebbe continuare ad investire ed a lavorare per stare peggio?
Ci possono essere diverse ragioni. Per esempio, può non essere chiaro se il fatale limite sia stato oltrepassato o meno; oppure ci possono essere poche persone che guadagnano molto e tante che collettivamente perdono di più, ma individualmente perdono poco. Ovviamente, quelli che guadagnano si organizzano per difendere i loro privilegi, mentre coloro che ci rimettono di solito neanche capiscono in che modo gli spariscono i soldi. Esiste però anche un altro meccanismo molto più insidioso: una vera trappola da cui è spesso impossibile sfuggire, anche quando ci si rende conto di cosa stia succedendo.
La trappola
“Oramai sono così sprofondato nel sangue che fermarmi e tornare indietro sarebbe altrettanto faticoso che andare avanti”. Questa celebre battuta della tragedia shakespeariana esemplifica bene una trappola in cui tipicamente si cade quando si investe nello sfruttamento di un sistema senza tenere sufficientemente conto del suo funzionamento e della sua resilienza. Cerchiamo di capirci con qualche esempio pratico.
Un caso da manuale è quello dell’estinzione dei banchi di pesce e, conseguentemente, delle imprese di pesca con le relative filiere fino, eventualmente, alle banche creditrici. La trappola scatta quando, a fronte di una riduzione del pescato, le imprese rispondono investendo in mezzi più potenti che depauperano ulteriormente la risorsa e così via in una tipica retroazione positiva (rinforzante). In assenza di fattori limitanti esterni efficaci (limiti di legge, limiti del credito, ecc.), il sistema giungerà necessariamente ad un punto in cui pescare diventerà anti-economico. Ma se saranno stati fatti investimenti troppo grandi non ancora ammortizzati e/o debiti non ancora ripagati, i pescatori saranno costretti a continuare a pescare sempre di più, anche in perdita, anche se si rendono conto che stanno distruggendo la loro risorsa. Così come le banche saranno costrette a rinnovare loro i crediti per guadagnare tempo, sperando in un miracolo.
Un meccanismo analogo sta alla base del consumo di insostituibile suolo per continuare a costruire case, malgrado le imprese costruttrici siano sovraccariche di appartamenti e villette invendute. Se non vendono, perché continuano a costruire? Perché se smettessero le banche non rinnoverebbero loro dei crediti che non possono pagare. Così ognuno continua, sperando che altri schiattino prima di lui, liberando spazi di mercato che potrebbero salvarlo. Anche le banche creditrici continuano a sostenerli, sapendo che dalla liquidazione di quelle imprese non recupererebbero mai quanto loro dovuto.
Saliamo di scala.
Oramai da anni, per molti campi petroliferi il costo di estrazione e raffinazione supera il prezzo a cui il petrolio può essere venduto; un meccanismo che sta mettendo più o meno in crisi imprese e petrocrazie . Eppure tutti questi soggetti, anziché accordarsi per tagliare la produzione e sostenere i prezzi, si affannano a pompare a più non posso. Follia collettiva? Penso di no. Nel periodo dei prezzi alti ed in previsione di ulteriori aumenti, le imprese hanno fatto degli investimenti miliardari ed avviato progetti di estrazione in condizioni estreme. Tutti costi che non sono ancora stati ammortizzati; ciò significa che se ora abbandonassero i progetti dovrebbero mettere a bilancio perdite enormi, perdere il credito e probabilmente fare bancarotta. Inoltre, progetti particolarmente impegnativi sul piano tecnico e finanziario, se abbandonati, difficilmente potranno essere ripresi. Spesso si lavora quindi in perdita, sperando in una ripresa dell’economia globale, oppure nel fallimento dei concorrenti.
Per quanto riguarda le petrocrazie il quadro è analogo, con l’aggravante che, più o meno tutti questi paesi, hanno approfittato del periodo di prezzi molto alti per avviare programmi di spesa che non possono più sostenere, ma che è pericoloso interrompere. Il Venezuela e l‘Arabia Saudita sono casi emblematici.
Politica
Qualcosa di funzionalmente analogo avviene anche in politica. Perfino le dittature, a maggior ragione le democrazie, per durare a lungo hanno bisogno di mostrare qualche successo all’opinione pubblica. Finquando le cose vanno abbastanza bene non ci sono quindi grossi problemi, ma quando le difficoltà quotidiane cominciano a stringere la cintura di troppi cittadini troppo a lungo, occorre ridirezionare il malcontento. Per esempio su di un nemico esterno, oppure su di una minoranza interna od altro, secondo il contesto. Ma quando leader e partiti cominciano a cercare il sostegno delle frange più oltranziste dell’opinione pubblica (integralisti religiosi, nazionalisti, ecc.), rischiano fortemente di trovarsi poi intrappolati in situazioni in cui o fanno qualcosa che sanno essere sbagliato, o perdono il potere e, magari, la vita.
La recente vicenda della “ brexit” è emblematica in questo senso. Nato nella testa di David Cameron non per essere fatto, ma solo come trovata propagandistica, il referendum ha finito per essere votato ed approvato. Questo ha proiettato l’intera classe dirigente inglese nel panico perché non era quello che contavano accadesse; al punto che ad oggi, oltre un anno più tardi, il governo ed il parlamento non sono ancora riusciti a mettere insieme una strategia. Anzi, neppure un elenco completo delle cose da fare. Certo, avrebbero potuto rimangiarsi la “papera” e le occasioni non sono mancate, ma per coglierle avrebbero dovuto ammettere di aver deliberatamente mentito agli elettori. Un fatto che li avrebbe cancellati dalla scena politica e che, perciò, nessuno ha avuto il coraggio di fare.
In questo periodo sono molti i leader che si stanno cacciando in tipiche “trappole McBeth”: da Netanyau a Kim Jong Un, a Putin passando per Trump, ma forse l’esempio più di attualità ce lo fornisce il duo Rajoy-Puidgemont. Inseguendo l’elettorato nazionalista spagnolo e catalano rispettivamente, entrambi hanno fatto di tutto per infilarsi in una situazione in cui non hanno più margini di manovra. Il risultato è che, comunque vada, i catalani possono solo perdere una parte non sappiamo quanto consistente del loro tenore di vita. Ma anche gli altri spagnoli e tutti gli europei ne avranno un danno.
In cima alla scala.
Forse la più stretta analogia con la celebre tragedia si trova però alla massima scala: quella globale. Negli anni ’70 un certo numero di streghe e di stregoni esperti in dinamica dei sistemi, ecologia e termodinamica avevano ampiamente avvertito del fatto che l’umanità si trovava ad un bivio: o accettare dei limiti, o distruggere la civiltà e buona parte del Pianeta con essa. Altri stregoni, più pratici di psicologia che di scienza, ci hanno però detto che il nostro regno sarebbe durato per sempre e, collettivamente, abbiamo scelto di credergli. Ora che dagli spalti di Dunsidane si vedono le prime frasche della foresta di Birnam in marcia, qualcuno comincia a rendersi conto dell’errore commesso. Ma per tornare indietro sarebbe oramai indispensabile prendere provvedimenti talmente drastici da provocare un disastro subito. Per esempio, 70 anni fa per mantenere la popolazione umana entro limiti sostenibili, sarebbe stato sufficiente ridurre la natalità; oggi sarebbe necessario anche ridurre l’aspettativa di vita dei vecchi. Chi potrebbe ragionevolmente proporre una cosa simile?
Parimenti, buona parte delle più devastanti retroazioni climatiche pronosticate si stanno manifestando con netto anticipo: dall’esalazione di metano dal permafrost e dai fondali marini, alla riduzione dell’albedo artica, alla ridotta attività fotosintetica, eccetera. Ciò significa che, se davvero volessimo contenere l’aumento di temperatura media entro i 2 C° (che sono già molto dannosi), dovremmo tagliare brutalmente la produzione agricola ed industriale e farlo subito. Cioè condannare miliardi di persone ad una miseria senza precedenti.
In sintesi.
Insomma, l’”effetto McBeth” è una trappola che si chiude gradualmente, man mano che qualcuno (individuo, azienda, classe sociale, nazione, umanità) mantiene una strategia che in passato ha dato buoni risultati anche quando questa comincia a non funzionare più. Ad ogni passo innanzi il prezzo da pagare per procedere aumenta, ma aumenta anche il prezzo da pagare per tornare indietro.
C’è una speranza? Secondo me si. Per quanto le nostre conoscenze scientifiche siano senza precedenti, sappiamo infatti che i sistemi reali sono comunque più complessi di ogni possibile modello. Esiste quindi la concreta possibilità che in futuro avvenga qualcosa di imprevisto che cambi le carte in tavola. Ancor più importante è il fatto che, anche a fronte di un collasso globale, non tutte le regioni della Terra avranno lo stesso, identico destino. Man mano che il meta-sistema globale andrà in pezzi, i sub-sistemi che ne nasceranno seguiranno infatti traiettorie diverse. Talvolta molto simili, talaltra divergenti e non c’è modo oggi di prevedere quali saranno i fattori chiave che faranno la differenza. Perciò sono convinto che l’unica cosa sensata che ci resta da fare sia cercare ti tenere la nostra barca europea pari il più a lungo possibile e, intanto, cercare di procurarsi un qualche tipo di cintura di salvataggio. Il Titanic sta affondando, ma non tutte la cabine andranno sotto contemporaneamente e non tutti affogheremo. Su questo possiamo contare, cerchiamo quindi di non buttarci in mare da soli.