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Maledette automobili!

Niente basta, a colui al quale non basta quel che è sufficiente/11 il trolley truck

trolley trucks ovvero: filocamion

Una idea che abbiamo perseguito per dieci anni, divulgandone la ragionevolezza e gli aspetti più innovativi ed interessanti, insieme a Massimo De Carlo e Corrado Petri. Un documento da noi redatto ormai cinque anni, da cui sono tratte le note che seguono, ha girato anche in Europa, riuscendo infine a ricevere attenzione.

1.         Il concetto

Il concetto è relativamente semplice ed intuitivo:

  • data per scontata la maggior efficienza economicità ed affidabilità dei veicoli elettrici rispetto a quelli tradizionali
  • ed analogamente data per dimostrata la possibilità di tagliare in modo drastico l’emissione di inquinanti,

resta da comprendere il modo più opportuno per arrivare, in tempi rapidi, diciamo nell’arco dei prossimi 10-20 anni, alla sostituzione dell’attuale parco circolante con un parco di veicoli elettrici.

Dati la tecnologia ed i costi degli attuali sistemi di accumulo disponibili, appare attualmente antieconomico sostituire il traffico pesante con veicoli elettrici, se non su percorsi a breve raggio e con mezzi medio piccoli. Questa situazione è destinata a cambiare rapidamente, con l’avvento di tecnologie di accumulo più performanti, con il calo dei costi e con la creazione di reti di ricarica rapida. Benché tutto questo sia auspicabile, è importante creare le premesse perché la transizione sia rapida e avvenga a fronte di vantaggi, anche economici, per la UE, fin dalle prime fasi. Le E-highways e i filocamion (o “Trolley Trucks”, in breve TT) appaiono un modo economico rapido efficiente e conveniente di implementare detta transizione IMMEDIATAMENTE, senza attendere successivi sviluppi tecnologici.

Infatti il costo di una trasformazione di un veicolo ESISTENTE si può stimare intorno a 100-150.000 euro (o meno, su volumi di conversione decenti). Tale investimento può essere rapidissimamente recuperato sotto forma di

·         risparmio nei costi carburante

·         riduzione costi manutenzione causa maggiore affidabilità del mezzo.

·         maggiore durata del mezzo con conseguente riduzione del costo annuo di ammortamento dello stesso

·         sgravi fiscali

·         risparmio costi assicurazione, bollo

etc etc.

2.         Cenni storici: il filocarro della Valtellina

Il filocarro della Valtellina come modello del futuro

Come spesso succede, anche con le idee apparentemente innovative, è sempre possibile trovare dei precedenti.

In questo caso, le prime sperimentazioni di “Trolley trucks” sono state effettuate in Italia, con il “filocarro” della Valtellina. Data la lunghezza della linea (80 chilometri) il numero di veicoli coinvolti, le modalità e la durata dell’utilizzo, ultradecennale, si può, a pieno titolo, parlare di sperimentazione operativa. A tutt’oggi tale esempio in Europa RESTA INSUPERATO.

Il filocarro è stato realizzato e prodotto dalla AEM di Milano, dal 1938 al 1962 proprietaria della diga costruita per la centrale idroelettrica della Valtellina.

Un totale di 20 veicoli pesanti (camion e bus) con il trolley sono stati utilizzati per il trasporto di cemento, sabbia e attrezzature per la costruzione delle dighe San Giacomo e Cancano II in Alta Valtellina, destinate a soddisfare il fabbisogno di energia elettrica della città di Milano.

16 camion erano a tre assi ed uno a quattro assi, due trattori per trainare carichi pesanti e due veri e propri filobus per il trasporto del personale, tutti operavano a 650 volt in corrente continua tratte dalle linee elettriche aeree (bifilari, vedi 3.1).

La lunghezza totale delle linee di questa Filovia dello Stelvio era, come detto, di circa 80 chilometri.

Riferimento web: https://it.wikipedia.org/wiki/Filovia_dello_Stelvio

L’esempio storico della Valtellina dimostra che l’implementazione a scala industriale del filocamion era perfettamente fattibile quasi ottanta anni fa. La combinazione di (1) progressi tecnologici maturati da allora, soprattutto in elettromeccanica, elettronica e cibernetica, (2) costi fortemente incrementati dell’energia, (3) sensibilità ambientale, in particolar modo per quanto riguarda i costi sanitari ed ambientali insiti nell’attuale mix trasportistico, rende evidente che oggi sia possibile applicare questa tecnologia con vantaggi molto maggiori.

A supporto di questa affermazione, attualmente (vedere 4.) ci sono diversi esempi di applicazione in esercizio e/o sperimentazione.

3.         Principali componenti tecnici specifici:

linea bifilare e trolley pole

3.1       Bifilare

Mentre un tram o un treno possono utilizzare anche i binari per chiudere il circuito e quindi necessitano di una sola linea aerea, questa possibilità è ovviamente preclusa ai mezzi su gomma. Pertanto la linea aerea per alimentarli è a due cavi e si chiama, in italiano, bifilare.

Riferimento web: https://it.wikipedia.org/wiki/Bifilare

3.2       “Trolley poles” o aste di captazione

A questa bifilare si agganciano i “trolley poles” o aste di captazione, in italiano.

Dettaglio della cima conduttrice di un “trolley pole”

Riferimenti web: https://en.wikipedia.org/wiki/Trolley_pole

https://it.wikipedia.org/wiki/Asta_di_captazione

3.3       Altri componenti

Questi due sono i principali componenti specifici di un sistema di filocamion. Sono perfettamente noti e sviluppati.

Ugualmente noti e sviluppati sono componenti non specifici quali il sistema di propulsione (elettrico o misto) dei mezzi, il sistema di alimentazione della filovia, e il sistema elettronico di controllo e gestione della medesima.

4.         Esperienze o attività in corso

Presentiamo alcuni esempi odierni di linee bifilari di lunga estensione, in esercizio o in sperimentazione, che dimostrano la fattibilità tecnologica del concetto.

4.1       Filobus in Crimea

la linea di filobus più lunga del mondo, quasi 90 km, in Crimea è un ottimo esempio, che, con la sua semplicità, dimostra l’immediata fattibilità tecnica della cosa.

Riferimento web:

http://mondoelettrico.blogspot.it/2010/04/la-busvia-elettrificata-piu-lunga-del.html

4.2       Il Trolley truck svedese di Scania 

Riferimento web:

http://newsroom.scania.com/en-group/2012/07/04/electric-truck-for-alternative-ore-transportation/

Un’ottima verifica sui costi di elettrificazione: 1.5 miliardi di corone (165 milioni di euro), per realizzare una linea di 100 km: quindi costo medio di 1.65 milioni di euro/Km. Appoggio dunque su questi dati (recenti e a scala significativa) la mia stima per una linea autostradale, comprensiva di sottostazioni di alimentazione ecc., che è di 1.5-2 milioni €/km. Le notizie su questo progetto che ho trovato sono ferme al 2012. Il sistema di propulsione (powertrain) è Siemens, come nell’esempio 4.4 (vedi sotto).

Riferimento web: http://mondoelettrico.blogspot.it/2012/03/il-filocarro-svedese.html

4.3       Trolley trucks in miniera, in Zambia

Questo esempio dimostra che non ci sono limiti di potenza.

Un filmato è disponibile qui:

Sarebbe consigliabile sintetizzare qualche dato tecnico

4.4       Progetto E-highway Siemens-Volvo

https://lh4.googleusercontent.com/xlAOOlx1sBX_U7HIq9DpsciFJTugarGIYQv7W0mqSkFPwHbC2QJYyWX_dyMMKGsZdtvDN9kds2ZXkY1wu0AEO8eD-KEMN0WX3hGOlenc2_OBsnjxYvo6gGQ13xp9TEXWTaz0GvW2https://lh4.googleusercontent.com/rpooCfhHuQcYPWeiC5sDFWrGn4RO08hSGvtZa6V9Bg_QIOTvbYwZq7wodMLAjvX1P8srF1lcXN1C83x80M7OIWUIzPgqd9LlE44mbtn_R_FB4wFjKhAvRgmRQtYGOnlW3UGxQZQQhttps://lh6.googleusercontent.com/6QX8n5-EvA9j6tZXXYO-TcVYhGZmj_XnKoGVqqVGflK_hTT_9jdCOxLfKhEeTkPqlFTyc_XiXXRAoEBN_KhYq6ZG1rRvASKLv088hTapMz5pTq0DL9aen-EZvg6ovdtZlJ1pcS8K

in sostanza: un Trolley truck che ha sistemi sofisticati di controllo e consente l’aggancio/sgancio ad ogni velocità. inoltre ha sistemi di accumulo di bordo che permettono i sorpassi e la marcia fuori dalle aree alimentate, per un certo numero di km. Una possibilità semplice, che pure viene studiata, per abbattere i costi del sistema a doppi alimentazione è quella di un veicolo bimodale, ovvero elettrico ma alimentato sia dal bifilare sia, in alternativa, da un generatore di bordo. È attualmente la soluzione ottimale dal punto di vista funzionale ed economico, per l’implementazione in kit su veicoli esistenti. È stata realizzata da alcuni anni una linea di prova di 4 km in Europa.

http://www.mobility.siemens.com/mobility/global/en/interurban-mobility/road-solutions/electric-powered-hgv-traffic-eHighway/the-ehighway-concept/Pages/the-ehighway-concept.aspx

4.5       News disponibili recenti 

4.5.1 Prevista l’installazione di una linea di prova di due km in California nell’ambito del progetto ENUBA

http://www.siemens.com/press/en/pressrelease/2014/infrastructure-cities/mobility-logistics/icmol20140812.htm?content[]=ICMOL&content[]=MO

https://www.auto21.net/2017/11/13/la-tecnologia-per-i-filo-camion-messa-alla-prova-anche-in-california/

4.5.2 FILOCAMION SULL’AUTOSTRADA BREBEMI

L’iniziativa prevede la sperimentazione dei primi 6 chilometri dell’autostrada (3 chilometri su ognuna delle due direzioni di marcia) che entreranno in funzione nel 2021, nel tratto compreso tra Romano Lombardo e Calcio. Alimentati da pannelli fotovoltaici disposti lungo l’autostrada stessa.

https://www.askanews.it/cultura/2019/03/27/autostrada-elettrica-brebemi-a-scuola-tedesca-pn_20190327_00022/

6.         I costi ambientali

Ma l’analisi dei costi finora presentata non ha preso ancora in considerazione un elemento di grande peso e crescente importanza politica e sociale: le esternalità del trasporto pesante su gomma, e soprattutto quelle derivate dall’inquinamento ambientale. È su questo versante che la proposta E-highways & Trolley  trucks può apportare benefici decisivi, specialmente tenendo conto della sua effettiva applicabilità in volumi importanti e tempi brevi, grazie agli immediati benefici economici derivanti agli autotrasportatori da una sua implementazione.

Infatti, considerando le emissioni di un mezzo pesante, i costi marginali di inquinamento sono infatti molto maggiori del costo attuale del trasporto stradale: fino al 200%-300% di tali costi, come analizzati in 5.2.

Lo giustificheremo di seguito.

6.1       Costi marginali di inquinamento (NOX e PM2,5)

Il seguente grafico presenta dati recenti (2010)[1] sui costi marginali di inquinamento corrispondenti a due dei principali contaminanti emessi: gli ossidi di nitrogeno NOX e il particolato PM 2,5.

Nel caso italiano, il costo marginale legato all’inquinamento è :

  • di circa 0.048 €/grammo per il PM2,5 (valore medio su scala europea),
  • di circa 0.018 €/grammo per gli NOX (valore medio-alto su scala europea).

6.2       Emissioni in condizioni di reale utilizzo

Un camion moderno da 40 tonnellate consuma mediamente 1 litro per percorrere 2 km. O meno, in città e in condizioni difficili. Le emissioni sono le seguenti, sempre da dati da ricerche UE[2] che confrontano le emissioni di mezzi pesanti diesel e CNG (compressed natural gas, gas naturale compresso):

6.3       Stima delle esternalità di inquinamento

Combinando i dati presentati in 6.1 e 6.2 sopra possiamo vedere che:

Grammi/ kmCosto per grammoEsternalità: costo per km
(da 6.2)(da 6.1)
NO xmin30,25 € 0,047 €  1,44
max42,45 € 0,047 €   2,02
media36,35 € 0,047 € 1,73
Grammi/ kmCosto per grammoEsternalità: costo per km
PM 2,5min46,25 €  0,018 €   0,83
max54,43 €  0,018 €0,97
media50,34 €  0,018 €       0,90
Esternalità: costo per km
NO x + PM 2,5min € 2,26
max €  2,99
media € 2,63

Vediamo che l’impatto economico soltanto da questi due inquinanti (cioè senza considerare il costo indotto da HC, CO, CO2; quindi in una stima nettamente per difetto) può stimarsi in 2,26-2,99 €/km, con una media di 2,63 €/km.

Si tratta quindi di un costo elevatissimo e superiore al costo chilometrico complessivo del camion.

– 3-4 volte superiori al costo di carburante

– 2 volte superiori al costo del conducente

– 10-12 volte superiori ai costi autostradali.

Questo calcolo di esternalità dimostrano inoltre che il presente modello produttivo e fiscale sta sovvenzionando pesantemente il trasporto merci su gomma con combustibili fossili, a spese di tutta la comunità. Lo sviluppo dell’elettrificazione presenta quindi una possibilità notevole per riequilibrare questa situazione distorta, a beneficio di tutti.


[1]                    http://www.ferpress.it/wp-content/uploads/2013/06/trasportomercieuropa1.pdf

[2]       http://www.ehpt.it/pdf/Giorgio_Martini.pdf

CNG: gas metano è uno studio sui vantaggi della metanizzazione, peraltro da perseguire.

7.         Possibilità di risparmio

Le presentiamo in funzione dell’analisi precedentemente svolta dei costi internalizzati ed esternalizzati;

  • risparmio di carburante
  • risparmi fiscali vincolati alla riduzioni delle esternalità,
  • altri vantaggi.

7.1       Risparmio in carburante

La conversione a modalità bimodali o elettrica con generatore di bordo, permette di ridurre questi costi di almeno il 50% (stima ragionevole tenendo conto delle percorrenze autostradali rispetto a quelle stradali e del costo per km a trazione elettrica, circa 25-30 centesimi, con un costo a kWh ipotizzato di 12-15 centesimi).

7.2       Un possibile modello di stimolo fiscale

Un ulteriore importante risparmio (vedere 6) potrebbe derivare dall'”internalizzazione” dei costi derivanti dall’emissione di CO2. NOX e particolato, trasferiti come imposte di circolazione o con altri metodi ed ovviamente alleggerite, anzi: annullate, per mezzi con caratteristiche bimodali o elettrici con generatore di bordo.

I costi autostradali documentati in 5.2 sopra potrebbero essere ridotti di due terzi, per questi veicoli, ad esempio sulla base di politiche europee concordate.

Considerando una percorrenza media di 150.000 km/anno, con un carico fiscale tipico di circa 20 centesimi /km  ( 21 centesimi nel caso dell’italia) uno sgravio del 50% o 65 % ( intensità analoga agli interventi di ristrutturazione energetica delle abitazioni) si traduce in circa 15.000-20.000 euro/anno di benefici fiscali. chiarire meglio questo punto, il ragionamento non è trasparente

Questi sgravi potrebbero essere concessi SENZA EXTRACOSTI PER GLI STATI MEMBRI, come mostrato in 6.3, a causa dei benefici in termini ambientali e sanitari.

Questa stima, in sostanza, si basa sul girare agli autotrasportatori “virtuosi” una parte del risparmio derivante dall’abbattimento degli inquinanti, si veda il paragrafo relativo.

In realtà, se si torna a considerare il paragrafo 6.3 dei costi delle esternalità, si potrebbe dare un contributo, anche in forma diretta, addirittura tre volte superiore e sempre con un risparmio netto per la Comunità (senza parlare dei benefici per l’ambiente ed i cittadini)!

Un contributo tre volte superiore porterebbe a benefici totali per circa 45-60 k euro/anno, in grado di recuperare in pochissimi anni i costi di conversione del mezzo.

7.3       Altri vantaggi

La vendita dell’energia elettrica sarebbe, d’altro canto, l’occasione per un nuovo cespite di guadagno per le società autostradali ed una concreta opportunità per una loro trasformazione in multiutilities, senza contare la possibilità di produrre energia coprendo la corsia lenta e/o le lunghissime barriere antirumore con strutture che sostengono pannelli fotovoltaici.

infine, modulando la fornitura di energia e monitorando adeguatamente i carichi sulla rete, sarebbe possibile far viaggiare i veicoli in regime semiautomatico o del tutto automatico, a distanza ravvicinata ma con molti meno rischi che nel caso di un controllo umano. Questo permetterebbe dei periodi di relax ai guidatori, attualmente sottoposti a “tours de force” massacranti ( l’orario di lavoro legale i Europa è di 56 ore alla settimana, ricordo!!)

8.        Ritorno dell’investimento e applicabilità

8.1      Ritorno dell’investimento

Riconoscendo, ad esempio, sgravi fiscali esenzioni pedaggi e vantaggi vari pari al 15% di questo costo marginale, 50 centesimi AL KM, tenendo conto della percorrenza media annuale, (cercare riferimenti, io stimo almeno 100-150.000 km/anno, dato che la percorrenza teorica a 80 km/h con 56 ore alla settimana, 52 settimane all’anno è di oltre 230.000 km/anno), tenendo conto degli altri risparmi valutabili in circa altri 50-70 k euro, si permetterebbe l’acquisto di un kit di omologazione (al costo segnalato in 1. intorno a 100-150-000 €)  con un recupero del’investimento in tempi brevissimi, certamente inferiore a tre anni e questo anche considerando il pagamento dell’energia elettrica consumata, che anche venduta a prezzo di mercato consumer, 15 centesimi/kWh, consentirebbe costi di percorrenza dimezzati rispetto al gasolio. E’ bene considerare anche i costi complessivi di manutenzione del mezzo, che risultano di gran lunga diminuiti, grazie alla minore usura di parti meccaniche ( frenata almeno parzialmente sostituita dalla frenata elettrica con recupero di energia) e/o al minor costo dei materiali di consumo, ( filtri, liquidi etc etc) dovuti al dimensionamento frazionale dei nuovi gruppi ICE/ generatori di bordo, al posto del precedente ICE di trazione.

8.2      Applicabilità di un kit di retrofit elettrico alla flotta esistente

La flotta europea per oltre tre quarti è composta da veicoli relativamente nuovi, ( età inferiore ad 8 anni)con una elevata percorrenza residua. Oltre la metà della flotta ha meno di 6 anni.

Quadro di anzianità della flotta:

Figura 12: distribuzione per età dei veicoli commerciali pesanti utilizzati dagli autotrasportatori dell’UE-27 nel 2012 (% rispetto al totale di veicoli-km). Fonte: Eurostat, DG MOVE.

Altri dati sul tema:

http://glossary.eea.europa.eu//terminology/sitesearch?term=heavy+duty+vehicles

Questo rende interessante il retrofit elettrico dei veicoli, data la percorrenza residua attesa, che oltretutto verrà decisamente aumentata dopo la conversione, date le caratteristiche della trazione elettrica, così ulteriormente aumentando il beneficio sia economico sia, soprattutto ambientale, atteso con questo genere di attività..

8.3      Altri benefici non direttamente monetizzabili

Inoltre si avrebbero benefici certi, non monetizzabili direttamente, in termini di recupero industriale, occupazione, ricerca e sviluppo derivanti dall’implementazione, che certamente permetterebbero di ottenere ulteriori benefici.

Citiamo infine, anche se non sono i meno importanti, i benefici ambientali e la riduzione della nostra dipendenza (economica, industriale, strategica) dei combustibili fossili.

Appendice:

QUADRO LEGISLATIVO EUROPEO VEICOLI PESANTI:

http://ec.europa.eu/environment/air/transport/road.htm

ROAD MAP TO 2050

Lo scenario per i trasporti pesanti:

Cfr:

http://ec.europa.eu/clima/policies/transport/vehicles/heavy/index_en.htm

http://ec.europa.eu/clima/policies/transport/vehicles/heavy/documentation_en.htm

Lo standard previsto per l’unione europea:

http://transportpolicy.net/index.php?title=EU:_Heavy-duty:_Emissions

Il quadro legale

http://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=CELEX:32005L0055

un quadro generale dell’influenza dei trasporti

http://ec.europa.eu/transport/strategies/facts-and-figures/all-themes/index_it.htm

Un documento riassuntivo degli avanzamenti nel settore dei trasporti su gomma pesanti

http://www.iru.org/index/cms-filesystem-action?file=mix-publications/DYK-Truck.E.pdf

un documento quadro sui trasporti su gomma in Italia, in Europa e nel mondo

file:///C:/Users/utente/Downloads/convegno%20anfia%20autopromotec%2031102014%20(1).pdf

Leggendo i documenti citati si può riassumere:

L’impatto dei veicoli pesanti i termini di CO2 è nell’ordine di un quarto del totale legato ai trasporti terrestri,ovvero circa il 6% delle emissioni totali di CO2 in Europa.

Molto più rilevante, tuttavia, è l’incidenza su altri inquinanti: il particolato PM10 ( ed inferiore) e gli ossidi di azoto NOX.

Ancora importante ma in calo, grazie alla stretta sulla composizione dei carburanti, l’incidenza sull’SO2. Tutti questi valori si prevedono in forte calo( fino ad oltre il 90%!!) con la diffusione di mezzi Euro V ed Euro VI.

Resta un notevole influsso sull’inquinamento nelle aree attraversate da vie ad alta intensità di traffico pesante.

Ad esempio, tra i mille e mille cito questo documento:

http://www.comune.brescia.it/servizi/ambienteeverde/tutelaambiente/Documents/RelazioneComuneBrescia_Autostrada.pdf

relativo ad un intorno di 30 km della città di Brescia.

come si vede il trasporto su strada genera quasi un terzo e non un quarto del totale delle emissioni dei vari inquinanti.

Riguardo ai consumi energetici invece, il traffico pesante influisce su circa il 25% del totale ovvero intorno all’8-9% del totale dei consumi energetici europei.

Il settore del trasporto pesante, secondo le diverse stime ricavabili dai documenti citati, da lavoro a circa 6-10 milioni di persone e vale intorno al 4% del PIL europeo. 600 miliardi di euro.

In infrastrutture ( autostrade ponti etc etc) L’Europa investe circa 150 miliardi di euro/anno. Con l’1% di questa cifra, 1.5 miliardi di euro, potrebbero essere elettrificati 1500 km di autostrade All’ANNO. Dato che i km di autostrade in Europa (http://www.lestradedellinformazione.it/site/home/rubriche/articolo6220.html )

 Sono circa 72.000, in 25 anni potrebbero essere elettrificati circa il 50% delle tratte autostradali.

Con una intensità pari al 10%, tra l’altro facilmente ripagabile dalla vendita dell’energia elettrica prodotta, potrebbe essere elettrificata l’intera rete autostradale Europea in soli 5 anni.

[1] https://it.m.wikipedia.org/wiki/Schema_Ponzi

[2] https://www.crisiswhatcrisis.it/2020/01/20/yo-yo-36-miliardi-ed-una-bottiglia-di-rhum/

[3] https://www.crisiswhatcrisis.it/2016/07/28/il-picco-del-tempo-e-del-denaro/

[4] https://www.milanofinanza.it/news/perche-il-sistema-capitalistico-e-praticamente-morto-202005051341469082

( continua)

Argomenti ancora da sviluppare:

un’unica plastica per tutti gli usi domestici comuni

Garanzia obbligatoria di durata crescente. un anno ogni due anni fino ad arrivare ad almeno dieci anni per tutti i prodotti più comuni ( elettrodomestici grigi e neri, veicoli, sistemi elettronici, etc..)

carbon taxing ( diverso da carbon tax)

Referenze e spunti vari, quadro finanza globale eterodosso…

Niente basta, a colui al quale non basta quel che è sufficiente/10 Il pedal coin

Il pedal coin, storia di una idea promettente

Quel che segue è uno zibaldone di lavoro, da cui avevamo sviluppato nel tempo varie ipotesi operative, non riproducibili su un blog. Serve comunque, spero, ad introdurre e mostrare in cosa sarebbe consistito il pedal coin.

Purtroppo se qualcuno l’introdurrà, state pur certi che NON sarà in open source…

Molto semplicemente, dopo un paio di anni di divulgazione nei nostri circoli amicali, magari per convergenze parallele, magari perché vi sono pochi gradi di separazione fra due individui qualunque sul pianeta….è arrivato questo.

Con tanti cari saluti allo spazio per un futuro libero ed indipendente del concetto.

Unica consolazione: le idee, i memi, non ti appartengono davvero. una volta divulgate, vivono nella testa di chi le condivide.

( segue lo zibaldone, per chi ha voglia)

PEDAL COIN: UNA PROPOSTA OPERATIVA

INTRODUZIONE

Dopo la nascita dell’antesignana, Bitcoin, sono state create centinaia di monete virtuali, ciascuna con le proprie specificità ed i propri punti di forza, ciascuna in lotta per la sopravvivenza, alla ricerca di una nicchia di mercato.

Tutte si basano su due concetti fondamentali: il registro distribuito o distributed ledger e la catena di blocchi o blockchain come metodo di archiviazione condiviso.

Esistono due principali protocolli di funzionamento del “distributed ledger” con infinite e continuamente modificate varianti: il cd proof of work e il cd. “proof of stake”.

Questi protocolli, implementati in modo diffuso, costituiscono il segreto del successo di queste monete “virtuali”, perché, sostanzialmente, premiano gli utenti del sistema che forniscono la capacità di calcolo necessaria a svolgere i complessi procedimenti di calcolo che garantiscono transazioni sicure e la loro archiviazione condivisa nella rete ( cd distributed ledger).

Questo processo di calcolo a supporto di una particolare moneta si chiama “mining” e viene attuato secondo un particolare protocollo, che nella maggior parte dei casi e segnatamente nella più nota e diffusa di queste monete, il bitcoin, viene “premiato” con nuova moneta, allo svolgimento di un certo numero ( solitamente esponenzialmente crescente nel tempo) di calcoli connessi alle operazioni di validazione.

A causa della sua crescente complessità, che dipende duplicemente dal tempo, sia per la natura stessa del protocollo utilizzato sia perché il numero di transazioni aumenta all’aumentare della moneta in circolo e della sua diffusione, attualmente il mining è una attività che richiede enormi potenze di calcolo, elevati investimenti in tecnologia dedicata ed energia e costi crescenti anche in termini ambientali, per essere una attività remunerativa.

Proprio per questo, appositi panel costituiti dai fondatori della rete hanno più volte rivisto il protocollo di funzionamento, al fine di renderlo meno energy intensive, mantenendo lo schema di funzionamento, anche al fine di garantire la principale delle caratteristiche di queste monete, ovvero la loro natura di moente a credito ( vengono emesse solo a fronte di una attività e/o un investimento), tendenzialmente deflattive. Infatti il numero di monete totali è predefinito o mediante una unica emissione una volta per tutte o, come nel caso dei bitcoin, dalla crescente difficoltà di ottenere nuova moneta a fronte di un dato lavoro di calcolo eseguito.

Benché non sia lo scopo del presente lavoro fornire una analisi anche solo pallidamente esaustiva del concetto di moneta, si fa solo presente che la “virtualità” di queste monete è sostanzialmente simile a quelle delle monete ordinarie più diffuse, che sono anche esse, strettamente, virtuali

Sono infatti monete cosidette “fiat” ( dal fiat lux, di biblica memoria: sono un atto di imperio di una organizzazione nazionale o sovranazionale ( l’euro) che le fa “esistere”).

Da tempo, quindi, il denaro è un mezzo di scambio non connesso ad una singola e particolare entità fisica, potendo così essere prodotto nella quantità e con le modalità desiderate.

Il suo valore, dipende dal mercato, ovvero dalla utilità percepita dal suo possesso e quindi dall’interscambio con altre entità virtuali ( altre monete fiat) o reali ( beni e servizi, ad esempio il petrolio).

Per la loro natura “speculativa” le monete virtuali sono state prima ignorate e poi fieramente irrise, fino a che, circa tre anni fa si è assistito ad una esplosione del valore , iper esponenziale e speculativa, che ha visto un bitcoin passare da poche decine  a 1200 dollari, crollare a poco più di 100 dollari e rimbalzare poi fino a quasi ventimila dollari di valore, trascinando con se le principali monete.

Attualmente si assiste ad un forte ridimensionamento da quei valori stratosferici ed ad un opportuno ripensamento sia sui protocolli sia sulle potenzialità delle varie monete. Alla fine, come è logico che sia, delle centinaia esistenti, ne resteranno solo poche, ciascuna presumibilmente, andando a coprire una nicchia differente di diffusione e funzionamento.

Il pedal coin è una proposta operativa che intende creare una “” moneta” o, più correttamente un mezzo di scambio che sia basato:

  • Sul distributed edger
  • Su un metodo di funzionamento e consenso affine alla proof of work (POW) o proof of burn ( POB). Nel caso di una proof of Work andrà valutata la possibilità di un protocollo tipo mimble wimble3
  • Su una precisa attività fisica che sia verificabile tramite  una funzione di hash crittografico con HW di bordo
  • firma digitale
  • rete permissionless peer to peer ( p2p)
  • crittografia a chiave pubblica e privata.
  • Che generi benefici diretti ed immediati con la sua stessa esistenza
  • Che possa vedere la sua utilità sociale, economica ed ambientale riconosciuta dalla rete finanziaria tradizionale, ad esempio sotto forma di sgravi fiscali riconosciuti alla presentazione di tokens, in modo da rendere possibile, con vantaggio per ambedue i mondi, un punto di contatto.

L’attività che si intende porre alla base della sua esistenza è tanto semplice quanto intuitiva: il movimento in bicicletta, declinato su qualunque percorso e qualunque finalità. Ovviamente il concetto, una volta implementato, è passibile di essere allargato ad altre attività analogamente “virtuose”.

Rapida analisi dei benefici personali e collettivi attesi dall’uso di un velocipede

Prima di affrontare il tema complesso dei benefici diretti attesi, sembra più opportuno perché ragionevolmente prevalenti, affrontare quello dei benefici indiretti, derivanti, in sostanza, dalla sostituzione di spostamenti attuati con mezzi a motore con spostamenti attuati con velocipedi.

E’ comune consapevolezza che il costo per la collettività degli spostamenti che utilizzano mezzi endotermici o, più genericamente, a motore, è un multiplo di quello percepibile dal singolo cittadino.

Il cittadino infatti è conscio dei costi fissi ( bollo, assicurazione, rate di acquisto e/o deprezzamento) del veicolo che utilizza e di quelli variabili ( riparazioni, manutenzione, incidenti etc) mentre ben difficilmente può rendersi conto di quelli che vengono sostenuti dalla collettività.

Fra questi sono ben visibili quelli legati alla realizzazione ed al mantenimento delle infrastrutture trasportistiche necessarie, strade, viadotti, segnaletica, barriere di protezione; molto meno quelli legati agli aumentati rischi sanitari ( incidenti, malattie croniche legate all’inquinamento, degrado delle condizioni psicofisiche delle persone etc etc). Ancora meno immediatamente visibili sono quelli necessari a mantenere la complessa infrastruttura indispensabile per il rifornimento dei veicoli, il loro smaltimento la loro costruzione, i sussidi( spesso immensi) alle aziende del settore, agli autotrasporti etc etc.

Tali sussidi ai settori interessati sono spesso i maggiori, percentualmente, che lo Stato fornisce al sistema produttivo, ed i costi infrastrutturali accennati sono tra i principali che deve affrontare.

Senza, naturalmente, tener conto delle problematiche connesse  alle guerre, agli sbalzi del mercato petrolifero, etc etc. Senza contare, infine, l’immenso danno ambientale provocato, la devastazione di interi ecosistemi, il rischio sanitario che provoca decine di migliaia di morti all’anno.

Esiste una ampia, quasi infinita, messe di studi che hanno affrontato l’insieme di questi costi, palesi ed occulti, alcuni citati in bibliografia. Qui basterà ricordare uno degli studi più puntuale e recente, europeo, che ha stimato queste esternalità ( i costi che la comunità affronta per ogni km percorso in auto)  in 11 centesimi al km percorso, mentre ha stimato in 18 centesimi i benefici ( esternalità positive) derivanti da 1 km percorso in bicicletta ed in 37centesimi a piedi.

I costi complessivi affrontati in Europa per garantire il trasporto automobilistico sono stimati in 500 miliardi euro all’anno.

Se si tiene conto del basso tasso di riempimento delle auto, mediamente meno di due persone a veicolo, si può ritenere che i benefici costituiti dall’usare la bicicletta al posto dell’auto, immaginando di sostituire un’auto con due passeggeri con due persone in bicicletta, siano pari a circa 11/2+18*2=41,5 centesimi al km.

Tutto questo serve a fornire una possibile base di calcolo per agganciare una moneta che viene generata se e solo se si pedala, spostandosi tra due punti geografici differenti, al mondo economico reale. Il pedal coin, in sostanza, si propone come una specie di “certificato bianco”a minimale ed accessibile a tutti, con un suo mercato ( la piattaforma stessa) un suo metodo di archiviazione, distribuzione, certificazione e generazione ( la blockchain, il distributed ledger e la proof of work) e un suo valore di partenza, determinato dalla utilità ambientale sociale ed economica che la sua stessa esistenza attesta. Tale valore, inizialmente per motivi politici/ambientali, ma ben presto per motivi concretamente economici e sociali, dovrebbe o potrebbe essere riconosciuto dagli Stati in cui viene implementato, ad esempio sotto forma di sgravi fiscali riconosciuti dalla presentazione di pedal coins, secondo un interscambio che sia dell’ordine di grandezza necessario a riconoscere almeno il 50% dei benefici attesi al presentatore di pedal coin. E’ bene chiarire che il presentatore dei pedal coins potrebbe NON essere colui che ha materialmente pedalato per i corrispondenti chilometri ma che tali pedalcoins esistono solo grazie al fatto che si è svolta QUELLA e non altre attività ( proof of work).

Implementazione

L’implementazione prevede un protocollo simile alle versioni più “leggere” del protocollo di funzionamento del distributed ledger e relativadi bitcoin. Tale protocollo leggero è necessario perché il calcolo si svolge sfruttando la potenza di calcolo disponibile sugli smartphones attuali.

Il processo di mining si avvia SE e solo se, il dispositivo è agganciato con procedura di crittazione a doppia chiave, ad un minidispositivo connesso alla bici ( può essere portato anche in tasca) che, dotato di piattaforma inerziale di derivazione dalle schede dei cellulari attuali, dia dati di posizione velocità e caratteristiche di movimento congruenti con quelli risultanti dal cellulare stesso.

In poche e più semplici parole, se il sw di mining non vede un movimento che è assimilabile al pedalare ed analogamente il dispositivo “di bordo” ( può essere un gadget che fornisce una buona luce frontale e contiene l’accellerometro ed il dispositivo di connessione bluetooth) non vede lo stesso movimento, con una tolleranza la più stretta possibile, il mining NON si attiva.

I PEDAL COINS VENGONO GENERATI, TASSATIVAMENTE, SE E SOLO SE SI PEDALA, SU UN PERCORSO DEFINITO E MISURABILE TRAMITE GPS. Ecco perché una modalità tipo la proof of burn, che prevede di “bruciare” una certa quantità, in percentuale, dei token generati, in cambio di tokens premiali potrebbe permettere di collegare questi ai km percorsi, grazie alla variabile tempo, a sua volta connessa alle transazioni eseguite ed alla disponibilità di rinunciare ad un dato numero di token. Una cosa comunque da approfondire e non banale, come appare ovvio.

Proof of work e pedal coin analisi alternative

Un modo compatto e necessariamente semplicistico di definire la complessa serie di calcoli numerici sottostante alla validazione dei blocchi, nota come proof of work, è che la proof of work  consente alla rete di non essere aggredibile da un hacker o un truffatore che voglia creare transazioni fittizie finalizzate o al collasso del sistema per sovraccarico ( DOS attack) o alla generazione di profitto per lui, tramite incameramento illegittimo dei tokens ( delle monete virtuali) circolanti. In pratica, poiché i nodi della rete sono tutti ugualmente qualificati a riconoscere e validare una certa transazione, un attacco che crei una motitudine di noi che validino una operazione truffaldina potrebbe creare un forking, cioè un ramo della rete che, pur fittizio, essendo basato su una operazione scorretta, riceverebbe la maggior parte degli assensi e quindi verrebbe riconosciuto valido. Proprio la potenza di calcolo necessaria a validare un blocco di transazioni, legata alle modalità di formazione e validazione dei blocchi attività che viene remunerata dalla generazione di nuova moneta,  permette di bloccare queste intrusioni malevole, per insufficiente capacità di calcolo. Se quindi il concetto alla base della proof of work, evitare intrusioni malevole volte a far collassare il distributed ledger o modificare a proprio vantaggio lo stesso, ottenendo un reddito illecito, è questo, ecco che il pedalcoin come concepito, appare in grado di ottenere lo stesso risultato sostituendo alla proof of work la proof of pedal. 

Infatti un nodo malevolo, per far validare una transazione scorretta, o tentare un attacco DOS, dovrebbe prima di tutto fornire una proof of pedal ovvero mostrare che sta pedalando e che i suoi dati sono congruenti con quelli del device. Ma, ovviamente, non è possibile generare istanze multiple perché si avrebbe bisogno di device multiple che siano a loro volta congruenti con nodi multipli ed attivi ( stiano pedalando) congruenti con essi.

Proprio perché è basata fisicamente, su una azione difficilmente duplicabile o falsificabile, la proof of pedal non appare forzabile se non con il consenso della maggioranza dei nodi, cosa che non appare possibile ne probabile ( le device hanno chiavi private che le rendono non modificabili o crackabili). Il pedal coin viene generato, quindi, a fronte di una attività, una proof of work, che dipende dai km percorsi secondo un algoritmo da verificare. Ogni nodo attivo, ovvero che sta pedalando contribuisce alla validazione DIRETTA ( senza calcolazioni complesse ulteriori, dato che la rete non è forzabile) dei blocchi e viene direttamente premiato in modo costante, in dipendenza dei km fatti. L’aggancio alla rete avviene dopo assenso da parte del device e si mantiene se e solo se i dati ricavati dal device sono congruenti con quelli dello smartphone o smartwatch del candidato nodo. Esiste un limite superiore di 50 km/gg ( possibile grazie al timestamping)  che potrebbe essere imposto sia per evitare forzature nelle attività sia perché vi sono prove che percorrenze elevate non siamo significativamente positive per la salute dell’atleta e quindi, in ultima analisi, per la collettività.

Poiché è essenziale che si mantenga una democraticità tra i nodi ( ogni partecipante alla rete riceve tokens in proporzione ai km fatti) si propone che i tokens generati dalla chiusura di un dato blocco siano generati in proporzione dei km totali percorsi nel tempo generato dalla creazione del penultimo blocco da tutti i nodi partecipanti alla validazione e siano distribuiti in uno di due possibili modi:

  1. in maniera equa fra tutti. Benché in questo modo chi percorre più km viene premiato meno di chi ne percorre di meno nello stesso tempo, si ritiene che il tempo intercorso sia sufficientemente breve da non creare pesanti distorsioni e comunque potrebbe essere stabilito un limite minimo e massimo alle velocità di validazione di un nodo ( ad esempio 10 e 35 km/h) dato che quel che si vuole incentivare, ricordiamocelo sempre è LO SPOSTAMENTO in bicicletta tra due punti e non l’attività fisica in quanto tale e si ritiene quindi che velocità troppo alte o troppo basse siano indizi di attività diverse da quelle che intendiamo promuovere.
  2. In maniera proporzionale ai km percorsi dal singolo nodo nel tempo intercorso. In questo modo si mantiene un incentivo maggiore per chi, in un dato tempo si muove più velocemente, cosa di per se non obbligatoriamente sempre e comunque positiva. Rimane però il vantaggio sia di una maggiore equità che di un legame stretto con il contributo dato dal singolo al benessere collettivo.

I sensori necessari sono già presenti dentro ogni cellulare ( l’accelerometro dei cellulari è già in grado di riconoscere, grazie a molti sw liberamente scaricabili, il tipo di attività fisica svolta, il nr. di passi o di pedalate etc etc) e sono anche facilmente reperibili in forma estremamente miniaturizzata, ed economica, basterà qui ricordare gli orologi ed i bracciali utilizzati per le attività fisiche da milioni di atleti e semplici praticanti amatori, nel mondo. Si presuppone probabile una implementazione della piattaforma HW di conferma, cd “device” a partire da arduino e sensoristica connessa, per un costo stimabile, a sensore, di circa 5-15 euro e di circa 30-50 euro del device ( verifica necessaria). Da notare che il device ha anche l’utilissima caratteristica di poter costituire un ottimo allarme in caso di furto e che potrebbe essere realizzato in un bundle con altre utilità, ad esempio una luce e diffusore sonoro, una radio fm.. etc etc

La presenza di un doppio sensore, il proprio cellulare e il device di bordo” con collegamento a doppia chiave, rende difficili le truffe.

Si ritiene comunque che il valore tendenzialmente basso e comunque pari al massimo ad una ventina di centesimi, di un km percorso, nella sua interfaccia con il mondo reale tramite i riconoscimento di sgravi fiscali ( il 50% o meno dei benefici collettivi attesi per l’attività) renda scarsamente interessante l’implementazione di sistemi in grado di ingannare sia il sw sia il sensore “di bordo” che andrebbe, in qualche modo, pensato come certificato o certificabile e dotato di una sua univoca identità, per quanto anonima.

Da notare che il device può essere venduto con un riconoscimento parziale di un tot di pedal coin, che in qualche modo costituirebbe sia un modo di finanziare lo sviluppo dell’idea sia un modo per restituire utilità sotto forma di tokens a chi partecipa alla offerta iniziale di pedal coins. Si propone un intercambio credibile, ma comunque non troppo elevato, dato che i pedal coin saranno connessi ai km percorsi con valori in termini di ondo reali, bassi. ( 10 O 20 CENTESIMI A PEDAL COIN). Si vuole inoltre incentivare la creazione di valore mediante attività e non i rentier, che comprano device e non li usano.

Ad esempio 100 pedal coin, per un device da 50 euro.

O 200 per un device da 100 euro.

resta da chiarire:

  • Licenza per difendere l’idea. Propongo creative commons: chi vende sensori certificati e ci guadagna deve pagare le royalties previsti dalla legge. Chi li realizza senza fini di lucro ( ad esempio, un istituzione pubblica) e li distribuisce liberamente, no.
  • Il protocollo proof of work che sia leggero e compatibile con la potenza di calcolo disponibile e, nel contempo sia fisicamente agganciato ( tot al km, in qualche modo e non tot al minuto, per evitare che qualcuno vada in bici a passo di lumaca e faccia mining come un atleta in allenamento)è corretta la visone che vede la proof of pedal sufficiente?
  • Costi e modi di realizzare e certificare il sensore “on board”.
  • Lancio dell’idea, media coverage, endorsment politico e sistemico etc etc.

Bibliografia/riferimenti

I certificati verdi ed il loro fallimento https://www.theguardian.com/environment/2009/mar/10/lovelock-meacher-slam-carbon-trading

Stabilità ed affidabilità del Nakamoto consensus: https://eprint.iacr.org/2019/943.pdf

The Social Cost of Automobility, Cycling and Walking in the European Union

StefanGösslingabcAndyChoidKaelyDekkereDanielMetzlerf

https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0921800918308097?via%3Dihub

The True Costs of Automobility: External Costs of Cars Overview on existing estimates in EU-27

TU Dresden Chair of Transport Ecology Prof. Dr. Ing. Udo J. Becker Thilo Becker Julia Gerlach

https://stopclimatechange.net/fileadmin/content/documents/move-green/The_true_costs_of_cars_EN.pdf

3 https://www.binance.vision/it/blockchain/what-is-mimblewimble

Mimblewimble cambia il modello tradizionale delle transazioni blockchain. In una blockchain MW, non ci sono indirizzi identificabili o riutilizzabili, quindi tutte le transazioni appaiono ad un estraneo come dati casuali. I dati della transazione sono visibili soltanto ai rispettivi partecipanti. Quindi, un blocco Mimblewimble appare come una grande transazione invece di una combinazione di tante. Questo significa che i blocchi possono essere verificati e confermati, ma non forniscono alcuna informazione in merito a ciascuna transazione. Non è possibile collegare gli input individuali ai rispettivi output. Mimblewimble utilizza una funzione chiamata cut-through, in grado di ridurre i dati all’interno dei blocchi rimuovendo le informazioni sulle transazioni superflue. Quindi, invece di registrare ogni input e output (dai genitori di Alice a lei, e da Alice a Bob), il blocco registrerà solo una coppia input-output (dai genitori di Alice a Bob). In breve: Permette a una blockchain di avere una cronologia più compatta, più facile e veloce da scaricare, sincronizzare e verificare.

Inquadramento generale sui DL, blockchains e proof of work https://www.blockchain4innovation.it/esperti/blockchain-perche-e-cosi-importante/

Breve storia immaginaria di un paese inventato

C’era una volta, tanto tempo fa, un piccolo paese chiamato Svoglia. La vita in Svoglia scorreva mediamente felice se non fosse che gli abitanti, detti Svogliati, preferissero sistematicamente delegare, a chiunque si desse sufficiente pena di volerlo fare, la gestione del paese. Gli Svogliati, in sostanza, avevano come indole nazionale la convinzione che la comprensione del mondo fosse troppo faticosa, inessenziale e da evitare accuratamente.

Il paese, poco meno di un secolo prima, era uscito sconfitto da una brutta guerra (pur continuando a raccontarsi di averla vinta). Subito dopo la guerra aveva accettato denaro (ed una pesantissima ingerenza politica, militare e culturale) dal paese emerso vincitore del conflitto. L’opinione degli Svogliati era che la cosa più saggia da fare fosse seguire le orme dei vincitori, mutuare i loro usi e costumi e bollare come vecchia ed ammuffita tutta la propria tradizione popolare.

Seguirono anni molto felici segnati da una massiccia industrializzazione, dalla realizzazione di abitazioni più vivibili, dall’aumento del tenore di vita e da un forte incremento demografico. Tutto quello che appariva come “nuovo” veniva acriticamente esaltato, senza alcuna reale riflessione sulle conseguenze nel lungo periodo. Il propellente primo di tutto questo fervore erano le fonti energetiche fossili (petrolio), il cui sfruttamento, a tassi sempre crescenti, garantiva la possibilità di trasformare materie prime in manufatti da rivendere sui mercati interni ed esteri. Uno dei prodotti trainanti dell’industria manifatturiera di Svoglia furono le automobili, che gli Svogliati apprezzavano molto in tutte le loro funzioni: l’esibizione di aggressività e di status economico, l’eliminazione della fatica fisica e la possibilità di utilizzarle occasionalmente come alcove (che, in una cultura fortemente controllata dal clero, offriva una importante valvola di sfogo).

L’entusiasmo per il nuovo “oggetto dei desideri” entrò in sinergia con l’atavica abitudine degli Svogliati di non ragionare sulle conseguenze a lungo termine delle proprie scelte. Il risultato fu che la crescita dell’intero paese si modellò sul nuovo mezzo di trasporto. La rete stradale fu potenziata in modo da garantire a tutti la possibilità di muovere le proprie autovetture avanti e indietro. Interi quartieri e piccole città furono realizzati come strutture alveari prive di servizi essenziali, accessibili unicamente per mezzo di automobili. Il commercio si focalizzò in poche enormi strutture lontane dagli abitati dette “centri commerciali”. Il trasporto pubblico, soprattutto su ferro, fu abbandonato ad un lento declino.

L’adesione acritica nei confronti della nuova modalità di trasporto fu tale da produrre la convinzione diffusa che l’automobile fosse ormai “indispensabile”, ignorando l’evidenza che per millenni se ne era fatto benissimo a meno. Gli Svogliati subirono passivamente (quando non vi aderirono attivamente) la propaganda del comparto industriale legato alla produzione di automobili, alla raffinazione dei carburanti, ai servizi ad essa collegati, diventando succubi di un nuovo modello di auto-sfruttamento.

Ciò che gli Svogliati si rifiutavano attivamente di vedere era quanta parte del loro lavoro e delle loro fatiche contribuiva unicamente ad alimentare un meccanismo per cui alcuni quintali di ferraglia venivano quotidianamente spostati avanti e indietro solo per movimentare passeggeri del peso di poche decine di chilogrammi, in questo producendo malattie da sedentarietà, da inquinamento, da stress, congestione dei centri urbani, declino della vivibilità e distruzione su larga scala di risorse non rinnovabili.

Mentre altri paesi iniziavano la conversione a modelli di trasporto più sostenibili, gli Svogliati si incaponirono nell’errore. In parte ciò fu dovuto alla protervia con la quale le generazioni più anziane restarono abbarbicate alle proprie convinzioni e, parallelamente, alle leve del potere. A distanza di decenni, la gran parte delle cariche politiche, economiche e burocratiche del paese restava in mano a persone cresciute negli anni del “grande sviluppo” che, nei decenni successivi, avevano fattivamente ostacolato, ‘con ogni mezzo necessario’, il ricambio generazionale (o al limite promuovendo giovani portatori dei loro stessi valori). Il mantenimento delle leve del potere nelle mani di persone fisicamente debilitate dall’età contribuì alla fossilizzazione del modello di trasporto basato sull’auto privata, laddove in altri paesi erano state proprio le nuove generazioni, fisicamente ancora prestanti, a spostare la barra del timone in direzione di forme di mobilità attiva.

Gli Svogliati operavano, collettivamente, la sistematica negazione di ogni possibile alternativa alla propria condizione (un meccanismo ben noto alla psicoanalisi), proprio per alleviare la sofferenza derivante dal vivere in città soffocanti e disfunzionali. Come si può immaginare non andò a finir bene: man mano che le risorse energetiche non rinnovabili progredivano ad esaurirsi, l’intero modello economico su esse basato affrontò una inevitabile crisi. L’aumentare dei costi di estrazione e del declino dell’energia netta disponibile[1] provocò un picco dei prezzi del carburante, che non potè essere assorbito dalla capacità di spesa della popolazione.

Per un breve lasso di tempo diventò evidente quanto la diffusione dell’uso dell’auto privata dipendesse strettamente dai costi ad essa connessi, e quanto tale modello fosse incompatibile con un ulteriore aumento di tali costi. Una parte del comparto petrolifero scelse allora una strategia di abbattimento del prezzo al barile, per evitare di mandare in crisi l’intera organizzazione trasportistica mondiale (al prezzo non proprio trascurabile del collasso economico di alcuni paesi produttori, i cui costi di estrazione finirono con l’essere superiori ai prezzi di mercato). Ma il palliativo fu solo temporaneo, l’economia mondiale entrò in un lungo periodo di stasi. Dopo pochi anni il problema, inevitabilmente, si ripresentò.

Per gli abitanti di Svoglia questo rappresentò un brutto risveglio. I loro stili di vita, le loro abitudini, le loro intere città risultarono dipendenti da una modalità di trasporto dai costi non più affrontabili, sia in termini di carburanti, sia di costi di fabbricazione. Improvvisamente diventò evidente come l’intero sistema industriale dipendesse a doppio filo dalla trasformazione di grandi quantità di energia, disponibile fino a quel momento in forme quasi gratuite, in materie prime e manufatti. Venuta a diminuire la disponibilità energetica tutto iniziò a declinare.

Soprattutto iniziò a declinare la produzione di cibo, per decenni supportata da forme esasperate di sfruttamento dei terreni e dall’uso di fertilizzanti e pesticidi di origine industriale. Dovendo scegliere tra il morire di fame e l’abbandono della mobilità motorizzata, fu ben presto evidente l’inessenzialità della seconda. Con l’abbandono delle automobili anche la manutenzione di una rete stradale di fatto ipertrofica perse velocemente la propria utilità. Le città si ricompattarono, e molti dei quartieri extraurbani finirono abbandonati e demoliti, con grande rimpianto per i terreni fertili ormai irrimediabilmente perduti.

La nostra storia immaginaria di un paese inventato ha quindi un finale brutale, che racconta di un brusco risveglio. Gli Svogliati potranno ancora cavarsela, ma la loro attitudine collettiva ad ignorare le conseguenze delle proprie scelte ci fa temere per il peggio. Resta, a noi lettori, la consolazione di vivere in una realtà molto diversa. O forse no.

[1] In sostanza la sostenibilità di un modello di trasporto pesantemente energivoro come l’attuale dipende in senso stretto non tanto dalla disponibilità di risorse, quanto dalla quantità di energia netta disponibile. L’energia netta (EROEI) è data dal rapporto tra energia consumata nella produzione ed energia ricavata. Se questo rapporto è elevato (100:1 per il petrolio agli albori), il modello economico/sociale si organizza su consumi elevati e grande produzione di manufatti. Più il tempo passa, più le riserve maggiormente redditizie vengono sfruttate, lasciando solo quelle ad EROEI più basso. Ciò non comporta un immediato declino dello slancio produttivo, poiché il calo dell’energia netta è compensato in parte dall’infrastrutturazione precedentemente realizzata, in parte dall’innovazione tecnologica, in parte dalla messa a sistema di quantità crescenti di giacimenti a media resa. Ma sul lungo periodo il declino generalizzato dell’energia netta disponibile comporta inevitabilmente l’abbandono delle forme d’uso più esageratamente energivore in favore di quelle meno esose e più immediatamente utili, come la produzione di cibo.

 

Il conflitto per l’utilizzo delle strade

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Di chi sono le strade? Chi ha titolo di starci, di usarle? Quali utilizzi dovrebbero essere incentivati e quali limitati? Il dibattito su queste tematiche, nel nostro paese, è stato totalmente assente perlomeno da che ho memoria, diciamo l’intero ultimo mezzo secolo. Per questo motivo dovrò necessariamente partire da zero per sviluppare un excursus con minime pretese di senso compiuto.

Stando al corpus normativo le strade sono, almeno formalmente, spazio pubblico, quindi di tutti. Nessun cittadino dovrebbe avere a pretendere su di esse alcun diritto superiore ad altri. Questo, almeno, nella teoria. La pratica è, in realtà, ben diversa.

Nei contesti urbani la strada nasce fin dall’antichità come spazio di separazione tra le abitazioni. All’interno delle abitazioni si realizza l’ambito privato, mentre nello spazio tra le abitazioni si ha la dimensione pubblica, l’incontro, il confronto, lo scambio. Le strade, le piazze, rispondono ad un’esigenza innata dell’animo umano: la socialità.

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Nelle strade, nelle piazze, nasce la politica (da polis: città), perché solo in uno spazio pubblico le idee possono essere esposte alla popolazione, discusse, condivise, fino a trovare un consenso collettivo.

Nelle strade, all’aperto, si sviluppa il commercio al dettaglio, nascono i mercati, perché solo nello spazio pubblico, sotto gli occhi di tutti, si realizzano le condizioni più idonee a fare affari, sia per chi compra che per chi vende.

Nello spazio pubblico si realizza poi concretamente il senso di collettività, l’appartenenza di gruppo, di villaggio, di clan. Solo nello spazio pubblico si può arrivare a definire quali comportamenti ed azioni producano un miglioramento del benessere diffuso e quali, per contro, assecondino unicamente finalità egoistiche che nuocciano a gli altri.

Le strade, le piazze, gli spazi pubblici sono state questo, per millenni. Luoghi dove la popolazione commerciava, si radunava, dava luogo a cerimonie religiose, dove gli oratori arringavano le folle portando le proprie idee, dove i bambini giocavano, i giovani amoreggiavano, i mercanti commerciavano.

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Col passare dei secoli accade qualcosa che mette in crisi questo modello. Accadono più cose, in realtà. Possiamo elencare: la nascita delle nazioni moderne dalla frammentazione dell’Impero Romano, lo sviluppo delle città come sedi del potere militare, l’inurbazione legata al miglioramento delle tecniche agricole e di allevamento, ed infine la rivoluzione industriale, che stravolge i modelli di sussistenza di larghissime fette di popolazione.

Le città crescono in dimensione e complessità, e parallelamente crescono le esigenze di movimento all’interno delle stesse, nasce il trasporto collettivo, prima coi tram a cavalli, poi con quelli elettrici. Ma l’impatto realmente devastante si ha con la raffinazione del petrolio e la sua applicazione ad un mezzo di trasporto individuale: l’automobile.

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Il petrolio e l’automobile stravolgono completamente la forma delle città, e questo è più evidente nelle città del ‘nuovo mondo’, che sono cresciute senza un nucleo storico a fare da modello, ma influenza pesantemente la forma urbis di ogni città del globo terracqueo. Il petrolio fornisce quantità sconfinate di energia per animare i processi industriali, l’estrazione di materie prime, la produzione di cibo e la fabbricazione di oggetti.

D’un tratto l’occupazione principale dell’umanità passa dal farsi guerra reciprocamente al consumare il più in fretta possibile questa nuova risorsa, fabbricare oggetti di ogni forma e natura, nutrirsi meglio e godere di una ricchezza inimmaginabile per le generazioni precedenti.

Come impatta questo sulla forma città? In molti modi diversi. Più energia, più ricchezza, significano la possibilità di abitare in una casa propria, di possedere un’auto propria.

Se per generazioni la necessità era stata quella di una singola stanza, o anche solo di un letto in una stanza abitata da altre persone (senza andare lontano basta chiedere ai nonni, che ancora se ne ricordano), con l’avvento del consumismo si passa a desiderare un intero appartamento, sia per il nucleo famigliare, che per la coppia senza figli, che per il ‘single’. In qualche caso si arriva a possedere, oltre alla casa dove si abita, una seconda casa per le vacanze.

Questo fenomeno, da sé, produce l’esplosione delle periferie urbane, col risultato di aggravare altri problemi. Il primo fra tutti è che in queste città enormemente espanse le esigenze di mobilità aumentano esponenzialmente. Più persone devono spostarsi per raggiungere i luoghi di lavoro, o d’interesse, o del commercio.

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L’espansione della funzione abitativa non produce un equivalente decentramento delle altre funzioni della città, col risultato che masse di persone sempre più numerose sono ora costrette a muoversi frequentemente per tragitti progressivamente più lunghi.

Nell’immaginario collettivo l’unica soluzione possibile, e forse desiderabile, per far fronte a tale necessità diventa l’automobile.

Demonizzare l’automobile non è lo scopo di questo post. Rimane tuttavia necessaria una contestualizzazione degli esiti prodotti dall’utilizzo su larghissima scala di questo strumento, smontando le mitologie autoelogianti prodotte dalla massiccia e pervasiva propaganda, operata su un arco temporale di decenni, dall’industria dell’auto.

Cominciamo col dire che l’automobile è, del suo, un veicolo ingombrante. Questa realtà potrà non essere immediatamente percepita in una società ormai assuefatta al suo utilizzo, ma l’automobile occupa, abbastanza ingiustificatamente, molto più spazio di una persona che si sposti a piedi, ed occupa questo spazio, se parcheggiata in strada, anche quando non è in uso.

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La diffusione di massa di questo nuovo veicolo, agevolata da dinamiche economiche che ho spiegato in un precedente post ha modellato la crescita delle nuove urbanizzazioni e si è scontrata frontalmente con quelle più antiche.

Se nei nuovi quartieri lo spazio per l’auto di famiglia è stato ricavato, all’interno o all’esterno delle abitazioni (con garages e parcheggi all’aperto), nei centri storici delle città le sistemazioni preesistenti hanno impedito questo tipo di soluzione. Lo spazio per la sosta delle automobili è stato quindi ricavato disegnando parcheggi sulle sedi stradali, col risultato di restringere lo spazio destinato alla circolazione e marginalizzare le altre modalità di spostamento ed uso delle strade.

Man mano che la gran parte della popolazione si convertiva all’uso dell’automobile, questo innescava ulteriori problemi, primo fra tutti l’intasamento delle arterie stradali.

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Inevitabilmente, il trasferimento di buona parte della popolazione nei nuovi quartieri di periferia, e l’assenza di un reale piano di decentramento delle attività lavorative e produttive, ha finito col produrre flussi centripeti di cittadini automuniti in direzione dei centri città, e l’esigenza di destinare spazi sempre maggiori alla sosta di tali veicoli.

Un’ulteriore aggravante a tale situazione è risultata l’abitudine tradizionale al possesso della casa in cui si vive. Questo ha prodotto, nel corso degli anni, un irrigidimento delle abitudini abitative, cui non ha corrisposto un’altrettanta rigidità delle situazioni lavorative. Il risultato, sull’arco dei decenni, è che le distanze tra abitazioni e luoghi di lavoro sono mediamente aumentate, e con esse la necessità di spostarsi con mezzi propri.

Il trasporto pubblico ha sofferto in vario modo queste trasformazioni sociali. Le politiche che hanno favorito la motorizzazione di massa non potevano che svantaggiare l’utilizzo del trasporto collettivo, ben più efficiente in termini di persone trasportate e limitata occupazione del suolo pubblico. Nel tempo è stata proprio la crescita esponenziale del numero di veicoli in circolazione ad imprigionare gli autobus negli ingorghi e ridurne la velocità commerciale.

Il colpo di grazia, ad una situazione già del suo estremamente degradata, è stata l’idea che il traffico, per scorrere, dovesse essere “fluidificato”. Questo ha comportato l’ampliamento delle sedi stradali, la riduzione degli spazi pedonali (marciapiedi), la marginalizzazione di modalità di spostamento più lente (anche se molto meno voraci quanto ad occupazione di spazi) come le biciclette. Per lunghi anni si è lavorato ad aumentare la velocità di scorrimento delle automobili all’interno dei centri urbani.

Il risultato di queste politiche è sotto gli occhi di tutti. In primis si registra un aumento dell’incidentalità stradale e della gravità degli incidenti. Il problema degli ingorghi non è stato risolto, al contrario, la velocizzazione operata sulle arterie che danno accesso al centro città ha esasperato la quantità di veicoli che si imbudellano quotidianamente nelle vie storiche. L’assenza di qualsivoglia piano per la delocalizzazione dei parcheggi di superficie ha condotto alla saturazione degli spazi sosta esistenti ed alla pratica diffusa ed incontenibile della sosta in doppia fila.

Tutto questo ha portato guadagni enormi nelle tasche di pochi, ed esasperato la conflittualità urbana per il diritto a spostarsi ed utilizzare le pubbliche strade. Senza contare il fatto che lo spazio pubblico è stato pressoché interamente destinato ai clienti dell’industria dell’auto ed alle loro necessità, marginalizzando ogni possibile utilizzo alternativo.

Le strade si sono trasformate, lentamente e senza che ce ne rendessimo pienamente conto, da luoghi di incontro, socialità, gioco e commercio, in spazi destinati unicamente alla movimentazione ed alla sosta di automobili. Ogni altra attività che le aveva caratterizzate nell’arco dei millenni è stata resa per legge impossibile, impraticabile o troppo pericolosa.

La medicina per tale forma ormai conclamata di disagio psichico è una e una soltanto: ridurre i dosaggi di questa droga che sta uccidendo le nostre città e distruggendone la socialità. Non a caso è esattamente la direzione in cui si stanno muovendo le realtà europee più evolute.

Riduzione dell’uso dell’auto, riduzione degli spazi ad essa dedicati, riduzione delle direttrici di transito e liberazione dal traffico delle zone residenziali in primis. L’organizzazione della mobilità nelle città dovrà privilegiare il trasporto collettivo affrancandolo dall’imprigionamento negli ingorghi prodotti dai mezzi privati.

Parallelamente si dovranno ridurre tutte le facilitazioni all’uso ed al possesso di veicoli privati, dall’ampiezza delle carreggiate stradali alla disponibilità di spazi di sosta sul suolo pubblico, cercando di limitare per quanto possibili gli utilizzi non motivati da reale necessità.

Ridurre l’utilizzo diffuso di auto private comporterà prima di tutto benefici economici rilevanti. La sola spesa sanitaria legata all’incidentalità stradale ed ai danni sanitari direttamente imputabili all’uso di automobili è nell’ordine di 1000€ l’anno a testa, mentre i costi annui di possesso ed utilizzo delle automobili sono nell’ordine di 6/7000€ a veicolo.

La semplice sostituzione dell’auto di proprietà con un abbonamento a servizi di auto condivise (car-sharing), unito ad un abbonamento annuale al trasporto pubblico, comporterebbe un abbattimento di tali costi ed un rientro in circolo nell’economia locale di ingenti flussi economici.

Sul lungo periodo le strade smetteranno di essere parcheggi a cielo aperto e/o trappole potenzialmente mortali ad ogni attraversamento, e ridiventerebbero spazi delegati all’incontro ed alla socialità, dove sedersi a sorseggiare una bibita, guardare i bambini giocare a palla, leggere un libro, sfidare a carte gli amici, cenare all’aperto o corteggiare un/a potenziale partner.

Niente di più, o di meno, di quello che sono state per secoli, prima che decidessimo di riempirle di automobili e finire col dimenticarci a cosa servissero.

Il conto della serva

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Nel dibattito sulle infrastrutture per la ciclabilità raramente si discutono i motivi alla base della loro realizzazione. In un paese abituato ad affrontare i problemi reali con lo stesso approccio riservato alle discussioni sul calcio è, purtroppo, ormai abituale assistere alla contrapposizione di opposte tifoserie. Tra i favorevoli, ovviamente, i ciclisti, dall’altra parte gli automobilisti, in una guerra di posizione tesa a difendere il territorio conquistato, che sia spazio urbano o la priorità nell’assegnazione di fondi pubblici.

Se però guardiamo un attimo fuori dal ‘paesone Italia’ e proviamo a ragionare con la testa degli altri, ci rendiamo immediatamente conto delle reali argomentazioni a favore delle sistemazioni ciclabili e dell’uso della bicicletta, soprattutto nei contesti urbani. Per meglio contestualizzare il quadro complessivo farò un passo indietro e ragionerò sui motivi che hanno portato, in passato, ad investire così tanto sul trasporto automobilistico.

Negli anni del primo dopoguerra la priorità era risollevare il paese dalle devastazioni prodotte dalla seconda guerra mondiale e saltare in fretta sul ‘carro’ della crescita economica. L’Italia aveva un importante comparto meccanico/industriale che andava rimesso in moto ed un’industria petrolifera nazionale, oltre ad un territorio ancora per larghi versi mal collegato. In questo contesto promuovere l’utilizzo dell’automobile servì a ridare al paese la spinta, anche ideale, necessaria a dar vita al boom economico degli anni ’60 ed entrare a testa alta a far parte del mondo industrializzato.

Parliamo però di qualcosa come sessant’anni fa. In questi sei decenni la situazione è profondamente mutata. L’automobile, da sogno di libertà, si è trasformata in un insaziabile divoratore dello spazio urbano, fino al punto da saturare la rete viaria e produrre ingorghi e rallentamenti. Parallelamente a questo si è divenuti via via consapevoli del rovescio della medaglia, rappresentato da inquinamento, sedentarietà, incidentalità. Tutto questo mentre l’industria petrolifera nazionale perdeva terreno e la produzione di automobili si spostava all’estero, inseguendo l’opportunità di salari più bassi e privando il paese di un essenziale ricircolo di ricchezza. La mobilità a motore, col passare del tempo, si è trasformata per la collettività da risorsa a costo sociale.

Quello che, in tempi più o meno recenti, hanno fatto in Olanda, Germania, Danimarca, è stato darsi degli strumenti per contabilizzare quale ritorno per la collettività producano gli spostamenti in macchina. Su un piatto della bilancia c’è l’indotto fiscale derivante dalla vendita di automobili (vetture ed accessori), carburanti, assicurazioni, che rappresentano una buona fetta del PIL nazionale. Sull’altro piatto ci sono i costi di sviluppo e manutenzione della rete viaria e dei servizi connessi, i costi sanitari dell’incidentalità stradale, dell’inquinamento, della sedentarietà (sia in termini di malattie connesse che di mancato gettito per il tempo-vita e le ore lavoro perse), la perdita di ore lavorative generata dalle congestioni del traffico, il degrado dei centri urbani, lo stress prodotto dall’inquinamento acustico, la minor attrattività turistica delle città, il drenaggio monetario derivante dall’acquisto di carburanti dai paesi produttori e via elencando.

In uno studio del 2010  la città di Copenhagen quantifica queste analisi in termini di distanze: ogni chilometro percorso in bici comporta un guadagno economico netto di 42 centesimi alla società. Lo stesso chilometro, se percorso in auto, genera una perdita di 3 centesimi. Questo consente finalmente di ragionare sullo sviluppo della mobilità ciclabile in termini quantitativi, svincolandosi dal vicolo cieco delle opposte tifoserie: le infrastrutture ciclabili non solo servono, ma se ben realizzate producono un reddito per la collettività.

E qui facciamo un passo ulteriore, perché non tutte le infrastrutture ciclabili producono reddito, occorre che rispondano a requisiti stringenti. Il primo è che siano realmente utili ai cittadini per gli spostamenti quotidiani. Una pista realizzata male, poco fruibile, insicura, vandalizzabile (in questo includo tutta una serie di comportamenti che vanno dalla sosta di veicoli sulla sede ciclabile al passeggio di pedoni, cani, ecc… che ne frenano l’utilizzo da parte dei ciclisti), una pista che vaga ‘a zonzo’, senza condurre nei luoghi di interesse, sarà sicuramente poco utile e poco utilizzata, e non produrrà reddito.

Pertanto, a monte della progettazione e realizzazione, andrà fatta una valutazione costi/benefici per ogni singola infrastruttura, che comprenda oltre ai costi vivi una stima sull’utilizzo e le tempistiche di rientro dell’investimento. A 42 centesimi a chilometro, un segmento di infrastruttura ciclabile lungo un chilometro restituisce alla collettività 42 euro ogni 100 ciclisti che lo percorrano. Se viene utilizzato in media da 1000 persone al giorno (i numeri nel centro di Copenhagen sono ancora maggiori) realizzerà un utile di 420€/giorno, pari a oltre 150.000€ l’anno. Su questa base è facile stimare il tempo di ammortamento delle infrastrutture.

È anche più facile comprendere perché nelle grandi città europee si trovino tanti contatori di ciclisti: il numero di utenti è il fine ultimo della realizzazione. Se un’infrastruttura risulta poco usata non si da la colpa ai ciclisti ‘che non la vogliono utilizzare’, come accade qui da noi: se ne chiede conto all’urbanista che ne ha decretato la necessità, o al progettista che l’ha realizzata. Perché alla fine di tutto lo sviluppo dell’uso della bici, il trasferimento di utenza dalla mobilità motorizzata alla mobilità attiva, è una cosa che conviene a tutti noi, automobilisti compresi, indipendentemente dal fatto che ad una fetta di popolazione ‘piaccia’ andare in bicicletta.

E soprattutto noi ciclisti dobbiamo smetterla di atteggiarci a filosofi ed amanti del bello e scendere sul piano del ‘vile danaro’. La ciclabilità nelle città non è tanto una questione di soddisfazione personale o di convincere gli altri che abbiamo capito qualcosa più di loro (pensiero che peraltro rivendico), quanto di ‘saccoccia’, che è un argomento comprensibile all’intero universo mondo.

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L’eretico

Oggi ho partecipato al primo incontro/scontro ufficiale sulle politiche della mobilità, nell’inedita veste di assessore municipale, in una discussione riguardante la riapertura della sede stradale conseguente alla chiusura di un cantiere della metro C a San Giovanni. In assenza dell’assessore comunale, non ancora nominato, mi sono fatto carico dell’ingrato ruolo di ‘portatore di eresie’.

All’interno di un consesso allargato di tecnici e funzionari, che discettavano di restringere marciapiedi ed eliminare attraversamenti pedonali in ossequio alla ‘domanda di mobilità’ (come se quella pedonale non fosse mobilità) determinata dal passaggio di centinaia di veicoli/ora, ho contrapposto la tesi che quella domanda non fosse altro che il prodotto di sistemazioni stradali atte a favorire lo spostamento in auto.

Ho aggiunto che all’estero si sta da tempo facendo il contrario, ovvero ridurre le sedi viarie per ridurre il traffico (la cosiddetta Road Diet). Ho realizzato, ad un certo punto, come dovette sentirsi Galileo Galilei di fronte al tribunale ecclesiastico, a sostenere la tesi che fosse la Terra ad orbitare intorno al Sole, anziché il contrario… checché ne dicessero le Sacre Scritture.

Alla fine mi sono convinto del sussistere di un equivoco di fondo tra cause ed effetti. Nella mentalità arcaica che ha prodotto le città che vediamo intorno a noi il traffico è la causa che muove le trasformazioni urbane: esiste una domanda di mobilità a motore che va omaggiata marginalizzando tutte le altre possibili opzioni.

Questa visione è profondamente sbagliata: il traffico non è una causa, è un effetto. È l’effetto di scelte collettive e personali, di sistemazioni urbane e della propaganda commerciale. È l’effetto cumulativo di una serie di risposte corrette ad una domanda sbagliata in partenza, ovvero: come faccio a spostarmi da un luogo all’altro in macchina.

Mikael Colville-Andersen suggerisce di rivedere il paradigma che ha animato il 20° secolo, ovvero: “come far muovere sulle strade il maggior numero possibile di automobili”, e considerare la questione nei termini di “come far muovere sulle strade il maggior numero possibile di persone”. Ragionando alla luce della seconda formulazione diventa evidente che la maniera di far muovere il maggior numero possibile di persone non può essere l’automobile privata, per un banale problema di occupazione di spazi.

Ora ci troviamo a dover cambiare completamente approccio, e ridisegnare da capo l’uso che facciamo delle nostre città. Altri paesi l’hanno già fatto, vedendo impennarsi verso l’alto gli indicatori della qualità della vita. Saremo in grado di farlo anche noi? Vale la pena tentare.

mikael