Dopo il referendum britannico sono stato travolto da un’impressione che ultimamente mi coglie spesso, ma questa volta amplificata come non mai, e cioè che, sul tema, fosse possibile dire tutto e il suo contrario senza tema di essere smentiti. Coerentemente con questa sensazione difficile, ho deciso di sospendere il giudizio. Cosa succederà? Non ne ho la più pallida idea. Ma anche io ho le mie certezze. Ad esempio anche io me la sento di commentare la famosa tabella sul voto nel Regno Unito con cui un numero di commentatori di professione o d’occasione, hanno sancito la natura geriatrica dell’esito referendario. La tabella mostra la percentuale di favorevoli al “leave” nelle diverse fasce d’età. Da questi dati, incompleti, si evince che la maggioranza dei giovani è favorevole al progetto europeo mentre il risultato è determinato dal voto dei vecchi. Altri dati, usciti in seguiti, attenutano non poco questo giudizio mostrando che circa 1/3 dei minori di 24 anni sono andati a votare il che significherebbe piuttosto che la maggioranza dei giovani avevano altro da fare. Del resto l’idolatria del giovane è una delle più stupide idolatrie che si possa immaginare. Tutti siamo stati giovani e tutti sappiamo che il nostro giudizio a 18- 20 anni era tutt’altro che ponderato ed intelligente. O ce ne siamo dimenticati? Se questo oblio è il problema suggerisco di andarsi a leggere la poesia delicatamente amara di Wislawa Szymborska “un’adolescente” (ovviamente nella traduzione italiana per chi, come me, non sa il polacco). Ma la tabella di cui sopra non è stata commentata per un aspetto essenziale che dimostra, ancora una volta, la prevalenza del pensiero lineare. Una delle colonne della tabella indica in 90 anni la speranza di vita degli appartenenti alla classe di età fra i 18 e i 24. L’illusione di un futuro di crescita del benessere, della ricchezza, della durata della vita sopravvive a prescindere dal fatto che viviamo da ormai quasi 10 anni nella più grave crisi del sistema economico globale, che ci sono chiari segni di inversione di tendenza in diversi parametri demografici, e che, a prescindere dai dati osservati (che possono essere e sono sempre contraddittori) non c’è ragione di pensare che in una situazione di degrado delle condizioni ambientali generali come quella che si sta osservando da decenni, e che è in rapida accelerazione, la speranza di vita degli europei continui a crescere. Al contrario io penso che nel corso dei prossimi due decenni diventerà sempre più chiara la base ecologica profonda della crisi attuale. Una crisi che si manifesta come crisi economico- finanziaria, poi geopolitica, ma che ha solide radici nell’overshoot ecologico di Homo sapiens. Da questo punto di vista anche l’illusione “sovranista” appare come una manifestazione del pensiero lineare. A meno che non si cominci a parlare esplicitamente di limiti della crescita e di contenimento di consumi e popolazione, di transizione energetica e abbandono del paradigma economico- energetico vigente. Cosa che, ovviamente, nessuno ha il coraggio di fare. E allora tanti auguri a quelli che si illudono di vivere 100 anni.
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Grugniti in libertà di un cacciatore raccoglitore del XXI secolo
Brexit o mica brexit ?
Sembra proprio che David Cameron si sia ficcato in una tipica “loose-loose situation”, vale a dire una situazione in cui, comunque vada, saranno guai grossi. Purtroppo non solo per lui, che se ne meriterebbe a non finire, bensì per tutti.
Niente pronostici, tanto sono del tutto inutili e non ci si azzecca mai. Invece qualche considerazione su alcune delle possibili conseguenze del voto britannico.
il primo punto da rimarcare è che, comunque vada, il risultato si giocherà su di un pugno di voti e, quindi, circa metà dei cittadini britannici saranno arrabbiati e probabilmente anche spaventati.
Ora diamo uno sguardo ai due possibili risultati.
Se vince “Remain”.
Sul piano istituzionale ed organizzativo non cambierebbe nulla, le borse si calmerebbero e tutti tornerebbero a far finta di niente. Sarebbe un errore drammatico. Il fatto che circa metà della popolazione di uno dei maggiori paesi europei abbia comunque votato per uscire dall’Unione dovrebbe indurre i governi nazionali a finirla con gli attuali giochetti e varare una vera e profonda riforma dell’Unione. Ce n’è un immenso bisogno. Ma se fossero stati disposti a farlo lo avrebbero già fatto. A mio avviso dunque, il risultato peggiore di una vittoria del “remain” sarebbe di proseguire l’attuale situazione di stallo. Fino alla prossima crisi acuta che non tarderebbe ad arrivare da uno qualunque dei numerosi fronti politici aperti.
Se vince “Brexit”.
Qui gli scenari sarebbero più complessi. Ma al di la dei festeggiamenti fra coloro che in tutta Europa odiano l’Unione, le conseguenze sarebbero imprevedibili.
Per citare solo una delle molte possibilità, una vittoria dei separatisti potrebbe avviare quell’”effetto domino” che gli “euroclasti” si augurano; inducendo una valanga di referendum separatisti che, indipendentemente dei risultati, paralizzerebbero l’attività politica a livello a livello comunitario per anni.
Ma non sarebbe l’unico effetto dominio possibile. Poco tempo fa in Scozia la separazione dall’Inghilterra ha perso di stretta misura, ma nel Regno di Scozia la larga maggioranza della popolazione è filo-europea ed è quindi quasi scontato che, a seguito di una brexit, i separatisti scozzesi riproporrebbero il loro referendum, stavolta con la quasi certezza di vincere. E discorsi del genere circolano anche in Irlanda del Nord e perfino in Galles. Insomma, la brexit potrebbe catalizzare la disintegrazione dell’EU, ma anche quella del Regno unito; o di entrambe. Con quali conseguenze sulle numerose beghe separatiste pendenti in quasi tutti i paesi europei? Gradualmente, potrebbe essere la fine di molti di quegli stati nazionali che hanno sempre impedito la nascita di una federazione europea. Gran Bretagna in testa.
Anche sul piano economico gli esiti possibili sono molteplici. Naturalmente i sostenitori della Brexit annunciano un’ età di rubicondo benessere, mentre gli altri annunciano ogni sorta di calamità economiche. Chi dei due ha ragione? Io certo non lo so, magari nessuno dei due. Ma, comunque, se la brexit portasse un miglioramento nelle condizioni di vita degli inglesi, la spinta centrifuga se ne rafforzerebbe assai, anche se non è affatto detto che quel che succede in un paese succeda uguale in altri. Ma se, invece, l’uscita dall’Unione davvero precipitasse l’Inghilterra in una grave crisi, molti che adesso sognano il ritorno alla lira od alla dracma cambierebbero parere. In altre parole, la brexiti potrebbe anche cementare l’EU, anziché disintegrarla.
Infine, non dimentichiamoci che se davvero il Regno unito uscisse dall’EU senza sbriciolarsi, cambierebbero molte cose per le centinaia di migliaia di europei che lavorano in Inghilterra, ma anche per gli inglesi che lavorano sul continente che sono davvero tanti.
Conclusioni (provvisorie)
Insomma, qualunque cosa accadrà, andrà male.
Se vincesse “remain” tutti ne approfitteranno per non cambiare nulla e provocare così altre e ancor peggiori crisi.
Se vincesse “brexit” e le cose andassero bene per gli inglesi, le istituzioni europee andrebbero nel caos ed il castello che per 50 anni ha evitato il risorgere di nazionalismi aggressivi nella pancia dell’Europa andrebbe almeno in parte in frantumi. Spalancando la porta a sviluppi assolutamente imprevedibili.
Se, infine, vincesse la “brexit” e le cose girassero poi male per i sudditi di Queem Elisabeth, la UE potrebbe uscirne rafforzata, ma non per questo migliorata. E, comunque, indebolita, poiché il Regno Unito, malgrado tutto, è ancora un paese relativamente importante.
Complimenti Mr. Cameron. Ne valeva la pena, solo per vincere le elezioni scorse!
Come vincere le elezioni ed avere sempre ragione.
Confessatelo. A noi lo potete dire! La cosa MIGLIORE dopo le elezioni non è tanto (o solo) chi ha vinto o meno. Terminate anche le ultime raffinatissime analisi del post voto, compreso quelle delle urine dei neoletti (potrebbe succedere) rischierate le truppe per la prossima battaglia, sguinzagliati i reporters a ricostruire le biografie delle “facce nuove”, fatto un poco di “toto nomine”, NON CI SONO, per un poco, i DIBATTITI, dove ciascun candidato, come dire, sciorina la sua mercanzia.
Eppure i dibattiti sono fondamentali, per vincere le elezioni e, dopo vinte, per avere sempre ragione. Anzi: RAGIONE.
Siccome potreste essere curiosi e siccome, dopotutto, la vita è un continuo dibattito, colloquio o dialogo, ecco che vado a mostravi alcune semplicissime tecniche per avere sempre ragione, in ogni dibattito/colloquio/dialogo e, quando e se serve, vincere le elezioni.
Un poco scherzo, sia chiaro. Ma un poco, come si dice oggidì, anchenò. Visto che su queste cose stuoli di spin doctors ci campano, non ho grandi pretese. Mi limiterò a citarvi alcune tecniche classiche ma molto molto molto classiche, in modo da darvi gli strumenti per vedere come queste tecniche retoriche siano DAVVERO utilizzate in ogni santo, dannato e spesso noiosissimo dibattito. Di solito, chi li usa meglio vince il dibattito. Di solito, chi vince sufficienti dibattiti vince anche le elezioni. Gli esempi che porto per esemplificare sono ovviamente inventati da me e seguono la mia personale sensibilità ma sono sicuro che potrete richiamare alla memoria casi REALI a cui avete certamente assistito almeno una volta.
Partiamo dalla più classica delle tecniche: la confutazione di quanto affermato dall’avversario: Può essere ad rem: ovvero quanto affermato è in disaccordo con qualcosa di facilmente verificabile da tutti, oppure ad hominem: è in disaccordo con quanto affermato dall’avversario precedentemente.
Tipico, no?
Ovviamente l’avversario ribatte punto su punto ed ecco che comincia una schermaglia che ha ben definiti metodi ed utilizza stratagemmi ben riconoscibili. ne citerò alcuni, comuni ma non ovvi. Tanto per capirsi:Infamare l’avversario e buttarla in zuffa è un metodo troppo ovvio ( cosiddetto ad personam)per essere citato.
1) Postulare ciò che andrebbe invece dimostrato: ad es: Le Olimpiadi sono una occasione unica per la città….
2) Inferenza arbitraria: Se l’avversario accetta le ragioni in un caso particolare, portarlo immediatamente sul caso generale: es: alcuni immigrati sono estremisti/malati/ladri/ ergo gli immigrati rubano, ci infettano, mettono in pericolo la nostra vita.
3) Ridicolizzazione dell’opposto: Presentare l’opposto della propria tesi, in modo che l’avversario sia costretto a rifiutare lo scenario. Es: Immaginiamoci di accogliere liberamente tutte le persone che chiedono asilo, da qualunque parte vengano e per quanti siano, come pensa di nutrire, alloggiare, far campare queste persone? E’ pronto a prendersele a casa sua?….
4) Ampliamento: generalizzare all’estremo grado una affermazione dell’avversario, restringendo invece il campo della propria tesi contrapposta es: Lei quindi vorrebbe dare l’assegno di cittadinanza a tutti? ed allora perché non anche a tutti gli immigrati regolari, che magari già pagano le tasse? anche agli assassini, ai figli di mamma ricchi, ai miliardari nullatenenti, ai maestri di sci con i conti in svizzera? NOI, invece ci limitiamo a dire che le persone realmente in stato di bisogno non devono essere lasciate sole...
5) Retorsio argumenti: l’argomento che l’avversario porta a sostegno di una sua tesi viene usato meglio contro di lui. Esempio: la nostra amministrazione ha amministrato bene la città, riducendo i rifiuti in strada, avviando numerose opere, portando a termine alcuni eventi. Le vorrebbe dire che l’opera x era davvero utile? Vuol dire che negli ultimi sette anni i poveri sono diminuiti? afferma che le strade sono perfette? Etc etc etc
6) Apagoghe: trarre a forza dalle affermazioni dell’avversario tesi che in realtà non vi sono contenute e/o intenzioni che non sono quelle dell’avversario. Ad esempio: Se lei è contro la nostra riforma allora è per mantenere un sistema ingessato e per l’instabilità di governo… etc etc etc.
7) Tecnica mista/socratica. Frequente, ovviamente. Ad esempio: Lei è d’accordo che il benessere delle famiglie sia la cosa più importante in questo momento…. e che questo benessere dipenda dal lavoro…e che il lavoro dipenda dalla crescita… e che la crescita, in ultima analisi dipenda dalla sicurezza ed affidabilità percepita del paese..converrà quindi con me che, per raggiungere questa affidabilità ed attirare gli investitori bisogna dare seguito ad indispensabili riforme, nel settore del lavoro della previdenza, della sanità, delle privatizzazioni…. QUINDI etc etc. A meno che lei, naturalmente, non sia un esponente della sinistra radicale etc etc etc
Se state perdendo il dibattito o siete comunque in difficoltà o la faccenda sta diventando soporifera per chi ascolta vi sono almeno tre tattiche tipiche.
a) Diversione. E’ il classico: “la questione non è questa” che avrete sentito mille e mille volte. si cerca di portare la discussione fuori strada, possibilmente su un terreno più favorevole o almeno più incerto per l’avversario.
b) “Facite ammuina“: ovvero, come si dice a Roma, buttarla in caciara. Nella gazzarra, dando sulla voce ed impedendo ogni conclusione si impedisce all’avversario ed anche a chi ascolta di farsi una idea sulla cosa e, se per questo, anche sulle posizioni in rapporto alla cosa delle due parti.
c) “Redutio ad Hitlerum”. O ad Stalinum. O ad Mussolinum.
In sostanza, mentre l’avversario cita cose positive a sostegno di una sua tesi, affermare qualcosa tipo “si, i treni in orario sono importanti ma sotto Mussolini i treni arrivano in orario e non per questo voglio vivere in una dittatura”. Oppure: “Si, certo statalizziamo le banche salvate dal governo e poi continuiamo con le aziende. Finiremo in un batter d’occhio ai gulag ed alla dittatura del proletariato”.
…Si potrebbe continuare un bel pezzo. Lo scopo, ribadisco era di rendersi conto, insieme, che quel si dibatte sui media è davvero strutturato come un gioco delle parti con regole precise che portano, se ben comprese e seguite e quasi in automatico, risultati positivi (per chi le applica meglio). Ho la vaga speranza che, lette queste povere righe, siate presi dalla curiosità di approfondire da soli, se non altro per riconoscere all’opera le varie tecniche, specialmente quando sono utilizzate da bravi professionisti (sempre meno in verità). Mi pare ovvio affermare che uno TROPPO bravo in queste manfrine dovrebbe essere valutato attentamente, depurando tutte le fumisterie, in modo di arrivare SE esistono, alle sue reali intenzioni/capacità. Questo ovviamente è tanto più vero quanto più montano argomenti “di pancia” nella Società e nella “politica” (le virgolette sono d’obbligo, se uno torna all’accezione originale di Platone e lo confronta con l’attuale versione).
Il bello è che NON dovrete cercare molto per approfondire: Schopenhauer, filosofo più scherzoso di quanto mi ricordassi, ha scritto, oltre 160 anni fa, un’operetta quasi definitiva in merito, l’arte di ottenere ragione. Operetta in cui troverete gli esempi da me citati e molti, molti, altri. Abbastanza, se ben applicati, per vincere ogni dibattito, avere sempre ragione ed essere eletti alle prossime elezioni. (un poco per scherzo, ma anchenò).
Dio non è morto, Marx neppure e siamo solo noi a non sentirci tanto bene
Le cose cambiano, a volte più lentamente di quanto immaginavamo, ma cambiano.
Alla fine del XX secolo ci deliziavamo con la battuta di Woody Allen sulla morte di Dio e di Marx, ma oggi mi sento di dire che Dio non è mai morto, Marx è in ottima salute e siamo solo noi che non ci sentiamo tanto bene.
In effetti Dio appare ovunque e le religioni dilagano con il loro carico di valori, ideologia e, spesso, violenza. Perfino gli atei, con i loro dogmi scientisti, rischiano di apparire solo un’altra religione con il suo carico di intolleranza. Basta leggere Dawkins per rendersene conto. Con le sue vere e proprie scomuniche nei confronti di chi, essendo uno scienziato, non si dichiara apertamente ateo oppure, pur dichiarandosi ateo, non aderisce alla sua crociata (ha parlato, a questo proposito, di alto tradimento nella sua polemica con Gould). Ma non è solo in negativo che si osserva una rinascita, se non della religione, della spiritualità. L’osservazione del fatto che sappiamo veramente ben poco di quello che ci circonda e che, in sostanza, due secoli e mezzo di progresso scientifico sono serviti per lo più ad evidenziare l’immensità della nostra ignoranza, non può non condurre ad una considerazione semplice: non possiamo disprezzare né la sfera spirituale ne quella divina.
Anche solo sospendere il giudizio è, in questa fase, desiderabile e benefico. Fatto salvo, ovviamente, il rifiuto di quelle posizioni ideologiche che vorrebbero imporre il peccato come reato, la conclusione cui si giunge (lo fa ad esempio Bernardo Kastrup) è che il materialismo filosofico è una sciocchezza come le altre. Rivalutare la propria dimensione spirituale non vuole dire abbassare la guardia rispetto alla violenza della sharia o al clericalismo; è semplicemente un atto di onestà intellettuale.
Il marxismo ha ripreso ossigeno dalla crisi senza fine del capitalismo globalizzato e non senza buone ragioni. Karl Marx aveva capito molte cose e ci sono buone ragioni per rivalutare la sua analisi del capitalismo e del suo inevitabile collasso sotto il peso della sua stessa imponente ed inarrestabile crescita.
In particolare la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto sembra collegarsi più profondamente alla legge dei ritorni marginali decrescenti e, in ultima analisi, al secondo principio della termodinamica.
Raramente rivalutato con spirito innovativo, Marx viene generalmente rimasticato dagli orfani di Lenin (o perfino di Stalin per quanto vedo io), di tutte le rivoluzioni fallite e sfociate in qualche tirannia burocratica e folle. Il mondo è pieno di predicatori, anche molti marxisti lo sono.
D’altra parte anche l’idea abbastanza idiota che la Storia fosse finita, che il capitalismo, sostenuto dalla liberal-democrazia, trionfasse ormai ovunque senza avversari credibili si è scontrata con la realtà degli ultimi 15 anni afflosciandosi sotto il peso, in primis, del rapido raggiungimento dei limiti della crescita.
Ed è qui che arriviamo noi. Noi intesi come cittadini del mondo, noi che abbiamo poca o nessuna possibilità di influire sugli eventi. Noi che pensiamo a come sistemare la nostra famiglia ed i nostri cari domani; che andiamo a votare con quel fardello di risentimenti e insoddisfazioni derivati dalle mancate promesse del passato la cui falsità riconosciamo facilmente ormai, in quelle del presente. Noi stanchi di retorica vuota (perché anche la retorica, forse, aveva una sua nobiltà, come arte del convincere, quando non era stata svuotata dalla massificazione televisiva). Noi che soffriamo le conseguenze di una crisi che non avevamo previsto e una denaturalizzazione dell’ambiente che avevamo trascurato.
Pensavamo che il problema sarebbe stato l’abbondanza. Possiamo stare tranquilli: questo problema dell’abbondanza sparirà in fretta. L’abbondanza era un fenomeno passeggero, un transiente storico prevalentemente determinato dal flusso di energia a buon mercato garantito dai combustibili fossili.
L’inizio di questo secolo ha visto il primo momento critico nella storia della produzione petrolifera con una aumento generalizzato dei costi di produzione ed l’avvicinamento dell’EROEI (Ritorno Energetico sull’Investimento Energetico) al valore di 10, considerato critico per il supporto di una civiltà industrializzata.
Nello stesso periodo si è andato delineando lo scenario di overshoot ecologico della specie umana, attraverso praticamente tutti gli indicatori di impatto ambientale.
Il problema, come ha detto qualcuno, non è che alcune notizie sono cattive e che i nichilisti ecologisti vedono solo quelle; il problema è che le notizie sono tutte cattive. Quelle che non lo sono, o sono positive solo per chi non si cura dei danni ambientali, come la ripresa della crescita economica in questa o quell’area geografica; o irrilevanti, come la riduzione della mortalità per qualche malattia più o meno diffusa e importante.
La più cattiva delle notizie, che solo qualche pazzo può continuare a negare (il problema è terrificante quando quel pazzo diventa un candidato credibile alla presidenza degli Stati Uniti d’America) è quella che il cambiamento climatico sembra aver preso una traiettoria sulla quale è ormai difficile che si possa fare qualcosa se non, tornando all’inizio di questo post, raccomandarsi l’anima a Dio. Ognuno al suo, se ce l’ha.
Ancora più deprimente è l’incapacità di cogliere il nesso causale fra situazione ambientale globale ed esplosione demografica.
I vari ideologi si arrampicano sui pochi specchi disponibili: potremmo essere tanti e rispettare la natura dicono i comunisti ed i francescani. Possiamo essere sempre di più, purché riparta la crescita e la ricchezza torni a ‘sgocciolare’ verso gli strati più bassi della società, dicono gli idolatri del mercato. Anzi, addirittura siamo troppo pochi, la natalità deve riprendere a crescere, si rischia una crisi demografica senza precedenti.
Esiste anche un catastrofismo economicista che accusa il catastrofismo ecologista di essere catastrofista.
Mi sono venuto a noia da solo a ripetere che il problema non è assicurare un trattamento pensionistico alla mia generazione, ma garantire delle condizioni di vita non disastrose alle generazioni successive, inclusa quella dei miei figli. E invece il Main Stream politico – informativo continua martellante: ci vuole lo sviluppo sostenibile. Dipingiamo di verde tutte le porcate ecologiche che facciamo in giro per il mondo, finiamo di antropizzare il poco che resta della biosfera (ma ne resta?) e il gioco è fatto.
Portiamo tutti i popoli del mondo al livello di consumi europei, almeno, ed il gioco è fatto. Non vedete come sono ecologicamente impeccabili gli scandinavi? Sogni.
Le presunte virtù ecologiche dei paesi del nord sono sostenute quasi sempre dalla devastazione ecologica del sud. Nessuno in questo mondo è autarchico e basta dare un’occhiata alle mappe di impronta ecologica per capire che la sostenibilità è un’illusione.
Per come la vedo io siamo in una situazione disperata. Ma, c’è sempre un ma. Possiamo fare ancora molte cose: diffondere quello che sappiamo (alla fine ciò che è scientificamente vero si afferma). Smettere di essere arrabbiati con quelli che non ci ascoltano e non ci capiscono, ma anche con quelli che ci ostacolano e ci combattono, la rabbia è inutile. Dimostrare che è possibile vivere in modo meno distruttivo o non distruttivo. Che si può contribuire a creare un’infrastruttura energetica non basata sulle fonti fossili. Che si può combattere il consumismo opponendosi all’uso indiscriminato della plastica, alla rottamazione del vetro, battendosi per il riuso degli oggetti, imparando ad aggiustare le cose usando il molto che sappiamo sul loro funzionamento, ripensando il modo in cui si progettano e si costruiscono.
Possiamo soprattutto parlare con i nostri vicini, raggiungerli e impressionarli con le parole e l’esempio, sperando che parole ed esempio percolino oltre il nostro numero di Dumbar. Possiamo crescere i nostri figli nella consapevolezza di quello che ci attende. Possiamo iniziare a pensare al dopo collasso, perché il collasso ci sarà, statene sicuri.
Non sappiamo dove comincerà né esattamente come (anche se un nuovo collasso finanziario sarà probabilmente il primo evento scatenante), né esattamente quando (ma non ci illudiamo, questa società ha i lustri contati. Io scommetto per un massimo di 15 anni). Ma quando sentite parlare di proiezioni economico-sociali al 2050 non ci credete. Nel 2050 la società umana funzionerà con leggi diverse da quelle attuali.
Ognuno può immaginare quello che preferisce. Io mi astengo dall’immaginare troppo perché non ci sono gli strumenti per prevedere gli esiti di un collasso di queste proporzioni.
Un’etica per la decrescita
Le discussioni seguite al post su Marte, ed al successivo di Jacopo sulla sovrappopolazione, ruotano tutte attorno ad un punto comune: lo scopo ultimo delle civiltà. L’aspettativa umana è che il nostro esistere, soffrire, lavorare, amare, lottare, abbia un senso di ordine superiore, pur se inafferrabile. Un’aspettativa, questa, retaggio del sentire religioso più che del pensiero scientifico, un sistema di idee all’interno del quale l’uomo viene al mondo per decisione di una (o più) divinità e la sua vicenda umana si inserisce in un ‘disegno superiore’, inconoscibile ma in qualche maniera ‘giusto’, perlomeno finché si seguono i dettati della divinità.
Questa esigenza di senso nasce dalla nostra capacità di operare scelte consapevoli, ragionate o dettate dal desiderio. L’impossibilità di stabilire a priori se una determinata scelta sia ‘quella giusta’ e non un tragico errore (un residuo di epoche in cui lottavamo per la sopravvivenza) ci ossessiona per l’intero arco vitale. L’unico sollievo a questa eterna incertezza ce lo danno i codici di leggi, le regole, le norme, i comandamenti. All’interno di un alveo rassicurante di comportamenti collettivamente accettati la nostra ansia di approvazione trova un momentaneo sollievo, rassicurandoci di stare operando ‘nel giusto’.
All’interno di una cultura tenuta insieme da convinzioni religiose condivise questo meccanismo svolge la funzione di stabilizzare la comunità. Ovviamente vi saranno individui con comportamenti istintivamente più votati all’ortodossia ed all’omologazione, e dal lato opposto temperamenti ribelli ed iconoclasti, ma nel complesso la società raggiunge un equilibrio. E se tale equilibrio non produce forzanti eccessive su un ecosistema già in condizioni critiche, tale cultura può stabilizzarsi e prosperare nei secoli.
Il fattore di disequilibrio, nel contesto attuale, è rappresentato dall’avvento del pensiero scientifico/razionale a partire da Galileo Galilei. Il pensiero scientifico, in sé, non si contrappone alla religione, esplora ambiti più ristretti, limitati all’indagine del reale a partire dalla sua conoscibilità. Le diverse teologie, ereditate da popolazioni molto antiche, contengono al proprio interno interpretazioni vetuste ed obsolete della realtà fattuale. Nel momento in cui diverse delle vicende descritte risultano contraddette dalle nuove scoperte, l’intero costrutto teologico ad esse connesso finisce col vacillare.
Nel nostro specifico, le fedi di discendenza israelitica (ebraismo, cristianesimo ed islam) mutuano la forma di ‘religioni rivelate’, ovvero discendono dalla trascrizione diretta di quanto comunicato dalla divinità stessa a personaggi storici (i profeti), o dall’incarnazione stessa della divinità (il Cristo). Il contenuto di tali rivelazioni non è questionabile, in quanto di diretta discendenza divina. Tutto funziona finché si permane nel contesto storico nel quale il dettato stesso è maturato, ma col progredire dei tempi e delle conoscenze accade facilmente che tale ‘dettato’ si scontri con le nuove acquisizioni del sapere.
Che succede quando ciò si verifica? Per il religioso sorge una contraddizione insanabile tra la realtà fattuale di cui fa diretta esperienza e la ‘parola divina’ che racconta una verità diversa ed inconciliabile. Può la divinità mentire all’Uomo? Nulla lo vieta, ma a questo punto viene a cadere la relazione di fiducia reciproca, perché un’ombra di diffidenza si estende all’intero codice comportamentale che il libro rivelato propone, all’intero corpus di leggi, norme, obblighi e convenzioni. Se Dio è ‘verità’ non può mentire, ma se il suo libro ‘mente’, rappresentando una realtà che non coincide con l’esperienza diretta, trovare un punto di quadratura può risultare impossibile.
Come si lega questa digressione teologica al discorso su Marte e sulla sovrappopolazione? Molto semplicemente perché le modalità usate dalle singole persone per giustificare il proprio agire vengono proiettate sugli aggregati umani (civiltà) di cui fanno parte, contribuendo alle narrazioni utilizzate per dare un senso al proprio esistere. Ogni civiltà della storia umana si misura con le precedenti in termini di potere, ricchezza e qualità della vita che riesce a garantire alle popolazioni.
Per i lunghi secoli del medioevo l’Europa è rimasta succube del mito della Roma imperiale, avendo visto progressivamente degradarsi le risorse umane, culturali e tecnologiche necessarie a riprodurre la ricchezza e lo sfarzo degli edifici e delle opere ingegneristiche dei secoli passati. Dall’esigenza di riottenere, e possibilmente superare, quel passato splendore sono nati il Rinascimento, il pensiero scientifico e la civiltà tecnologica attuale. Da quello stesso slancio, come superamento di un precedente ideale medioevale legato al recupero, alla cura ed alla conservazione, è nata l’idea di una civiltà proiettata ‘in avanti’, verso sempre nuove conquiste. Ma ‘avanti’ dove? Fino a che punto?
È in questo contesto storico-culturale che si sviluppano l’idea del progresso e l’invenzione del concetto di futuro. Le nuove macchine prodotte dalla rivoluzione industriale disegnano una prospettiva storica radicalmente nuova, uno stravolgimento degli usi, dei costumi, dei metodi produttivi e potenzialità di ricchezza e benessere prima inimmaginabili.
Per elaborare queste nuove prospettive la cultura popolare ha dato vita ad un genere letterario ex-novo legato alle fantasie scientifiche, in seguito denominato fantascienza, che ha finito col diventare parte integrante dei nuovi media, cinema e televisione. La narrazione fantascientifica mantiene l’attenzione popolare focalizzata su un’idea di futuro avveniristico dove l’umanità, finalmente trascese le spiacevolezze del vivere quotidiano, avrà conquistato nuovi spazi e nuovi mondi dove prosperare e vivere esistenze sibaritiche lontane da ogni obbligo o necessità.
Con ogni evidenza si tratta del paradiso ultraterreno, promesso post-mortem dalle fedi di discendenza israelitica, semplicemente trasposto al futuro della specie umana: una terra promessa di potere, ricchezza, lusso ed avventure ultraterrene, ma solo previa adesione alla narrazione culturale corrente, basata sulla prospettiva (indimostrabile) di sviluppo e crescita illimitati.
Ma appunto, di fantasie e narrazione opportunistica stiamo parlando. Così come le antiche religioni avevano la funzione di stabilizzare e rendere più resilienti le culture che le adottavano, istruendone i membri singoli e i gruppi sulle migliori modalità di relazionamento reciproco, così la cultura industriale e post industriale produce una narrazione ‘dinamica’ funzionale al proprio successo ed alla propria affermazione globale. Pur senza entrare (tranne rari casi) in aperto conflitto con le religioni tradizionali, la cultura dello sviluppo industriale arruola in continuazione nuovi ‘fedeli’ mentre espande le produzioni ed i mercati su scala planetaria.
C’è, tuttavia, un errore di fondo molto grave: la cultura industriale include una narrazione parziale, e di nuovo opportunistica, dei processi soggiacenti alla ricchezza prodotta. Il punto chiave è che processi di trasformazione distruttiva vengono descritti come generazione di ricchezza, quando nel complesso il danno prodotto supera di diversi ordini di grandezza il benessere provvisoriamente acquisito.
Nell’ultimo secolo abbiamo ottenuto un incremento nella produzione di cibo a spese della fertilità dei terreni e della biodiversità, abbiamo praticato l’overfishing fino alla distruzione di buona parte degli stock ittici globali, abbiamo tagliato foreste primarie per sostituirle con coltivazioni industriali, abbiamo estratto, e bruciato, petrolio e gas fossili riversando quantità terrificanti di sostanze nocive e velenose nella biosfera: nell’aria, nel terreno e negli oceani. Un processo di distruzione sistematica di ricchezza e varietà biologica su scala planetaria che è stato descritto come l’unico possibile progresso.
Nel saggio “Collasso. Come le civiltà scelgono di morire o vivere” Jared Diamond analizza diversi casi di civiltà che si sono scontrate, senza aver avuto modo di comprenderli o elaborarli, coi limiti degli ecosistemi nei quali si sono venute a sviluppare. In molti di questi casi si è trattato di culture insediate in terre appena scoperte, situazione che ha comportato un’erronea valutazione riguardo alla capacità di rigenerazione delle risorse disponibili.
I coloni vichinghi della Groenlandia provarono ad esportare la cultura e gli stili di vita europei in una terra molto più fredda ed ostile di quanto stimato. Tagliarono foreste che avevano tempi di ricrescita secolari con la stessa allegra baldanza con la quale aggredivano quelle europee, con tempi di ricrescita decennali. L’esito finale fu che in breve esaurirono la legna, quindi dovettero rinunciare alla metallurgia, più avanti all’allevamento, infine alla navigazione, finché di quegli avamposti lontanissimi e sperduti non rimase nulla, e nemmeno un abitante sopravvisse.
I polinesiani operarono la colonizzazione dell’isola di Pasqua intorno all’anno mille. Una terra talmente ricca da alimentare la crescita esponenziale della popolazione, che finì col dare vita a bizzarri riti religiosi in grado, in un arco di pochi secoli, di causare la completa distruzione della principale fonte di ricchezza: le palme giganti dell’isola. Una specie vegetale autoctona ora completamente estinta.
Ciò che mancò a quelle civiltà fu una narrazione realistica dei processi in atto, in grado di leggere le dinamiche in corso e comprenderne la prevedibile evoluzione. Un errore di natura culturale che innescò i processi di distruzione massiva degli ecosistemi ed il conseguente collasso delle civiltà stesse. Lo stesso errore che stiamo commettendo da tre secoli a questa parte, dopo che la rivoluzione tecnologica e scientifica ha completamente stravolto gli equilibri del ‘vecchio mondo’ trasformando l’intero pianeta nell’equivalente di una terra nuova e sconosciuta.
E, sebbene la nostra cultura possieda una narrazione alternativa degli eventi in corso, è incapace di darle ascolto, perché gli interessi immediati dei ‘predatori apicali’ della società non coincidono coi contenuti di tale narrazione. Stiamo parlando del “Rapporto sui Limiti dello Sviluppo” del 1972, commissionato dal Club di Roma al M.I.T. nei lontani anni ’70, le cui previsioni stanno, lentamente ma inesorabilmente, prendendo corpo.
Recita un vecchio adagio: “è difficile abbracciare una verità se i tuoi interessi immediati dipendono dal negarla”. Potremmo considerare una caratteristica intrinseca della nostra specie, o delle specie senzienti tout-court, quella di rimodellare la descrizione corrente del mondo per adeguarla alle necessità immediate. Potrebbe in effetti trattarsi di un difetto non eliminabile nella nostra architettura mentale.
E tuttavia se il percorso da intraprendere comprende il rimettere in discussione l’errore della narrazione illuminista, occorre che una diversa filosofia emerga a guidare il pensiero ed il sentire del mondo moderno, perché un’inversione di rotta diventi possibile e la catastrofe evitata. Una filosofia in grado di narrare un ruolo per l’umanità diverso da quello della conquista, della ricchezza, dell’accrescimento individuale e collettivo a spese di tutto e di tutti.
La cultura della decrescita dovrà essere innervata da un principio di responsabilità nei confronti del mondo. Da un’etica che contrapponga l’eroismo della rinuncia al successo determinato dal possesso. Da un’idea del sacrificio individuale in funzione del bene collettivo che le religioni, cristianesimo in testa, portano inscritte da millenni nel proprio DNA, e che già in passato ha guidato l’umanità attraverso epoche di povertà diffusa.
Più che di una vera e propria religione strutturata, con canoni, dogmi e misteri, avremo probabilmente necessità di una riscoperta dei valori della spiritualità. Qualcosa che possa definirci come parte di una collettività con comuni aspirazioni, che si trova a vivere su un mondo fragile la cui salute dipende dalle nostre scelte. Una condizione di cui la fredda e meccanica descrizione fattuale operata dalla scienza può renderci consapevoli, ma senza offrirci gli strumenti emotivi che ci consentirebbero di affrontarla adeguatamente.
Il fatto che le ultime speranze di questo ateo che scrive siano riposte in un ritorno collettivo ad un sentire spirituale/religioso abbandonato, anziché all’affermarsi definitivo del pensiero scientifico/razionale, è il paradosso più spiazzante della mia intera esistenza.
La fine del “califfato” è vicina?
A Raqqah! A Raqqah!
Le poche notizie che circolano sulla guerra in Siria ed Iraq sono fornite dai comandi delle fazioni principali, dai loro rispettivi “tutor” internazionali o da organizzazioni locali, comunque politicamente schierate pro o contro questo o quel belligerante. Di conseguenza, prima di dare qualcosa per certo occorre aspettare e vedere se e come le varie fondi convergono su una versione dei fatti credibile.
Ciò nondimeno, per il “califfo” sembra proprio che si stia mettendo male. Tutte le principali città che gli rimangono sono minacciate.
A Mossul, le milizie curde, sostenute dai turchi (sissignori, proprio i turchi), tengono le colline a nord della città. Mentre le truppe irakene e le milizie sciite, col sostegno dell’aviazione USA e di fanterie iraniane, premono da est. Non sapendo che fare, il capo locale ha fatto pubblicamente bruciare vive 19 ragazze curde che si erano ribellate alla schiavitù.
A Falluja, con la copertura aerea statunitense, lentamente e prudentemente, avanzano le truppe governative, sostenute da varie milizie locali (alcune delle quali ufficiosamente inquadrate da militari iraniani).
Perfino Raqqah, la capitale dello “stato islamico” è quasi circondata, presa fra due fuochi. Da sud avanzano i governativi di Assad, appoggiati da truppe iraniane e milizie locali. La Russia offre l’ombrello aereo e non solo. Da nord preme un non meno eterogeneo cartello di milizie tribali fra cui spiccano i curdi (ma questi sono nemici dei turchi), sostenuti dall’aviazione e da “istruttori” americani e NATO.
Nel frattempo, diversi pezzi grossi del regime sono stati “vaporizzati” dai droni USA. Non solo questo non ha fatto bene all’organizzazione, ma ha anche scatenato una sorta di “caccia alla spia” all’interno stesso delle milizie jihadiste. Pare che decine di combattenti siano stati pubblicamente torturati ed uccisi perché sospettati di essere spie. L’ideale per galvanizzare una truppa demoralizzata da una serie di rovesci sul campo.
Anche nelle altre zone in cui operano gruppi affiliati non va niente bene. In Nigeria Boko Haram esiste ancora e fa paura, ma ha perso molto terreno e molti uomini. Perfino nel caos libico, Sirte è stata in buona parte conquistata da milizie “governative” (qualsiasi cosa ciò significhi oggi il Libia).
Un paio di anni fa Daesh controllava una grossa fetta di Medio Oriente, dove aveva organizzato una sorta di proto-stato relativamente efficiente, le sue avanguardie sparavano alla periferia di Baghdad e da tutti il mondo migliaia di “foreign fighters”accorrevano al suo servizio. Per lo stipendio, certo, ma anche per la gloria e la vittoria. Perfino un certo numero di ragazze europee ci sono andate, pensando che fosse una buona idea far figli per il “Califfo”.
Il Nord della Nigeria era in gran parte controllato dai miliziani di Boko Haram che cominciavano a colpire anche nei paesi confinanti. In Libia i Jihadisti si erano alleati con i superstiti del regime di Gheddafi, prendendo il controllo di diverse zone e minacciando la Tunisia.
Cosa è cambiato per rovesciare così le fortune del califfo?
La fine del “califfato” ?
Diciamo che ha fatto parecchi errori e tutti gravi. Credo che i principali siano stati due.
Probabilmente, il peggiore è stato proprio quello di auto-proclamarsi califfo. Dal nostro punto di vista, una semplice trovata pubblicitaria, se non una pittoresca baggianata.
Invece dal punto di vista dei mussulmani credenti una cosa gravissima. Proclamarsi Califfo significa infatti rivendicare il supremo potere spirituale e politico sull’intero mondo islamico. Una cosa come papa e imperatore contemporaneamente nel nostro medio-evo.
Dunque un fatto entusiasmante per i suoi seguaci, ma un sacrilegio per gli altri mussulmani. Ancora peggio, un modo sicuro per alienarsi i favori di tutti i governi islamici; compresi quelli che, probabilmente, avevano aiutato Daesh a nascere ed espandersi: Turchia, Arabia Saudita e Qatar.
Il secondo gravissimo errore è stato ammazzare 130 persone a Parigi. Gli attentati in Europa facevano parte di una strategia di marketing del “califfato” che aveva avuto molto successo. Specialmente negli ambienti dei rampolli senza identità e senza futuro delle classe media mussulmana europea. Perlopiù figli o nipoti di immigrati che si erano sistemati, talvolta male, spesso bene. Ma il secondo attacco a Parigi ha in qualche modo fatto traboccare un vaso. NATO e Russia, malgrado fossero ai ferri corti per la grana del Donbass, hanno infatti trovato un’intesa di fatto sulla Siria, passando alto sulla testa dei turchi che hanno tentato invano di boicottarla. Niente di ufficiale, naturalmente, ma di fatto le aviazioni delle due potenze (e dei relativi satelliti) da quel momento hanno cominciato a collaborare. Non solo, hanno cominciato ad attaccare l’infrastruttura economica del Califfato che, misteriosamente, fino ad allora era rimasta quasi intatta.
Ma sull’augusto turbante del “califfo” sono piovute anche altre tegole. Ad esempio, certamente non gli ha giovato che gli storici rapporti fra USA ed Arabia Saudita siano oggi al minimo storico; mentre le “sultanerie” di Erdogan hanno profondamente minato i rapporti della Turchia con i suoi alleati di sempre. Perfino con la Germania, suo sponsor da sempre. E questo proprio mentre procedeva una parziale normalizzazione dei rapporti con l’Iran. Di più: oramai sia in Sira che in Iraq l’aviazione a stelle e strisce collabora apertamente con formazioni iraniane o filo-iraniane. Complice anche l’altro artefice di immensi errori in questo periodo: Benjamin Netanyahu, che ha danneggiato Israele più di quanto non fossero riusciti a fare tutti i governi arabi insieme negli ultimi 30 anni.
Nel frattempo, l’assurda ferocia di Boko Haram ha portato tutti i paesi coinvolti a cooperare, col risultato che sappiamo. Ed anche il Libia, la maggior parte dei capi fazione ha trovato che non era una buona idea far fuori un dittatore per poi sottomettersi ad un altro ancora più pazzoide del primo. Così, pur non andando d’accordo su niente, sono riusciti a coalizzarsi contro il nemico comune.
Cosa succederà poi?
Dunque la storia del “califfato” è agli sgoccioli? Probabilmente, ma non si può dire per certo. Non tanto perché al-Baghdadi abbia chissà quali carte da giocare, ma perché non bisogna mai sottovalutare la capacità di sbagliare che hanno i suoi nemici. In altre parole, penso che il califfo possa solo vendere cara la pelle, ma qualcuno degli altri, nel frattempo, potrebbe fare qualche sciocchezza tale da dargli una nuova opportunità.
Poi bisognerà vedere cosa succede quando le varie fazioni in lotta contro l’ISIL si incontreranno in piazza. Si daranno la mano o continueranno la guerra fra di loro? Presumibilmente, anche l’accordo di sottobanco fra Russia e NATO verrà a cessare con la caduta delle principali roccaforti del califfato. E dopo? Si sono già messi d’accordo su cosa fare o si azzufferanno per l’interposta persona delle varie milizie clienti? Per citare solo un esempio, il Pyd (principale partito curdo siriano) finora è stato alleato di Assad, ma anche degli USA che vorrebbero far fuori il dittatore siriano. Ed ha formalmente annunciato che dichiarerà l’indipendenza dalla Siria: l’unica azione capace di mettere d’accordo Assad ed Erdoghan.
Ma pensiamo positivo ed immaginiamo che nessuno faccia apocalittiche stupidaggini ancora per qualche mese, magari un anno. Con tutta probabilità di qui ad allora Daesh sarà in lista di attesa per entrare nei libri di storia, ma questo non chiuderà assolutamente la partita dell’integralismo islamico. Men che meno quella del terrorismo in generale.
Sovrappopolazione e “bubbone giovanile”, errori e tradizioni storiche, crisi economiche ed alimentari, picco del petrolio e dell’energia, peggioramento del clima e siccità, distruzione dei suoli e della biodiversità, disintegrazione del “modello occidentale”, classi politiche infami e/o incapaci a seconda dei casi, opinioni pubbliche determinate a non ammettere l’ineluttabilità di alcuni fatti, sono solo alcuni dei fattori che hanno contribuito a creare il fenomeno dell’integralismo islamico (e non solo islamico, beninteso). Se anche fra qualche mese la testa di al –Baghdadi facesse bella mostra di sé confitta su di una picca, tutti questi fattori, assieme ad altri, sarebbero comunque lì dove erano nel 2000. Anzi, alcuni parecchio peggiorati rispetto ad allora.
La trappola della scimmia
Da diversi giorni vado ragionando sulle trappole per scimmie. Non so se l’idea mi sia arrivata da Jacopo, che ne aveva scritto pochi mesi addietro, o stesse lì già da tempo. Fatto sta che l’ho in testa da un po’ e, riflettendoci, continua a trasmettermi con prepotenza una sensazione di spiacevole familiarità. Il mio amico Paolo è solito affermare che, se si vogliono capire i comportamenti umani, basta pensare alle scimmie e tutto trova spiegazione. Dunque, che cosa sta tentando di raccontarmi questa idea, su di me e sul resto dell’umanità?
La trappola per le scimmie sfrutta un meccanismo psicologico molto sottile. Il cacciatore predispone un contenitore, vaso o bottiglia, o anche la semplice cavità di un tronco, con un’apertura da un lato, ampia a sufficienza perché la scimmia possa infilarci la zampa, quindi inserisce nell’apertura un frutto all’incirca della stessa grandezza dell’orifizio, e si apposta a breve distanza. La scimmia infila la mano nell’apertura, afferra il frutto, ma a questo punto non riesce più a sfilare l’arto. Potrebbe farlo facilmente se decidesse di lasciare andare l’oggetto afferrato, ma lo desidera troppo, quindi rimane imprigionata per il tempo necessario alla cattura.
Una delle costanti culturali della specie umana, fin dalla notte dei tempi, è il tentativo di rimarcare la nostra differenza dal resto del regno animale. Dall’antichità più remota l’uomo descrive sé stesso come apice della creazione divina, dominatore del mondo, cui tutte le altre specie viventi devono essere asservite. Così ce la raccontiamo da millenni, confidando che il ripetere sufficientemente a lungo una bugia la trasformi magicamente in verità. Abbiamo dovuto attendere la metà dell’ottocento perché l’accumularsi di evidenze, ed il genio di Charles Darwin, ricostruissero la realtà di una specie tra tante altre, caratterizzata unicamente dallo sviluppo evolutivo di un cervello di grandi dimensioni.
Ricollocato l’uomo ad animale tra altri animali ho pertanto cominciato a domandarmi quali e quanti parallelismi comportamentali fosse possibile sviluppare, analisi che mi ha condotto in tempi relativamente recenti all’idea di Domesticazione Umana ed all’analisi dei suoi perversi effetti. Ma l’intrappolamento della scimmia ci mostra qualcosa che va oltre la riduzione in cattività. Mostra come la nostra stessa avidità possa venire subdolamente ritorta contro di noi, portandoci in conclusione alla perdita della libertà.
Ovviamente per l’uomo non bastano un frutto ed una bottiglia, serve qualcosa di più complesso, ma l’esito finale è del tutto analogo. Proviamo quindi a sostituire al frutto i beni di consumo, ed alla bottiglia l’insieme delle regole sociali ed economiche, che conosciamo perfettamente, che accettiamo, ma il cui reale funzionamento sfugge ai più. Ci renderemo conto di come quotidianamente veniamo solleticati da ‘oggetti del desiderio’ che hanno sia un costo reale che un costo occulto. L’umorista Altan ce lo spiega efficacemente con questa fulminante vignetta.
L’uomo moderno individua gli oggetti del proprio desiderio in accordo, per solito, con le convenzioni ed i valori condivisi dal gruppo sociale di cui fa parte. È la collettività con la quale ci relazioniamo a dettare i canoni comportamentali accettati ed i marker dello status sociale. Ogni cultura umana identifica gli indicatori di ricchezza, benessere e leadership, dai primitivi copricapi in piume d’uccello ai moderni yacht.
L’oggetto che più comunemente caratterizza l’attribuzione di status nelle economie occidentali, o se vogliamo quello più immediatamente riconoscibile, è al momento l’automobile. Non perché non ve ne siano di più diffusi (televisori, gioielli, gingilli elettronici) o più costosi (case, barche), ma semplicemente perché l’automobile si sposta con noi ed ha assunto nel tempo la funzione di un ‘secondo abito’, indossato ed esibito per raccontare quello che siamo (o che crediamo, o che vorremmo essere) agli altri.
Nella fase del desiderio l’automobile appare, alla scimmia umana, alla stregua di un frutto come tutti gli altri, forse solo un po’ più vistoso. Col tempo, tuttavia, diviene oggetto di uso quotidiano e finisce col modellare intorno a sé le nostre intere vite. Abituati a muoverci in macchina ogni altra forma di spostamento ci apparirà via via strana e poco familiare, inusuale, scomoda, oltre alla spiacevole sensazione di dover dipendere, per i nostri spostamenti, da modalità esterne ed al di fuori del nostro controllo. In più, vivendo l’automobile come un secondo abito, la sua assenza indurrà la sgradevole sensazione di andare in giro nudi, l’equivalente sociale del non possedere più uno status nettamente percepibile dagli altri.
L’automobilista compulsivo finisce con lo sviluppare, rispetto al proprio veicolo, una forma di simbiosi non troppo lontana dalla dipendenza psicologica, che culmina nell’incapacità di immaginare altre modalità di spostamento. Frequenterà di preferenza locali e centri commerciali facilmente raggiungibili in auto, o dove sia comodo parcheggiare. Sceglierà di vivere nei quartieri che consentono un comodo raggiungimento in automobile del posto di lavoro. Percepirà il mondo come una serie di luoghi puntiformi disarticolati, raggiungibili per mezzo di strade più o meno veloci, più o meno tortuose, più o meno faticose.
Privo di argini, tale processo ha come esito finale una condizione in cui le nostre intere esistenze ruotano intorno all’uso dell’oggetto automobile, fino al punto da renderci incapaci di concepire una vita in assenza di essa. Non sono tanto i costi, pur elevati, che l’automobile ci impone, a rappresentare la vera trappola, quanto la perdita della libertà di spostarci in maniere differenti, di frequentare luoghi diversi dai soliti, operata a livello spesso inconscio. Abbiamo ancora tutte queste potenzialità, ma ci manca la capacità immaginativa necessaria a metterle in pratica.
L’adesione in massa a questo modello di mobilità, operata come collettività ingenua ed entusiasta, ha finito col modellare l’intera organizzazione urbana e del territorio. L’automobile, o se vogliamo il fenomeno consumistico nel suo complesso, ha prodotto lo sprawl urbano, l’ipertrofia abitativa (case sempre più grandi abitate da sempre meno persone) la proliferazione di corridoi stradali pensati per alte velocità di percorrenza, l’ingombro di suolo pubblico per le necessità di sosta.
Nel corso degli anni, spazi sempre più estesi sono stati sottratti ad ogni possibile utilizzo sociale e destinati esclusivamente alla movimentazione ed alla sosta delle auto private, producendo la marginalizzazione di ogni altra attività, erodendo spazi alla mobilità leggera, agli spostamenti a piedi, al gioco dei bambini ed al riposo ed alla socialità degli anziani. Ciò ha reso le strade cittadine dei non-luoghi pericolosi, rumorosi, puzzolenti, ed il raggiungimento di spazi e realtà piacevoli da frequentare un lungo viaggio da affrontare forzatamente a bordo del proprio veicolo.
Come nella trappola della scimmia, pensando di afferrare l’oggetto automobile per possederlo abbiamo finito con l’esserne catturati e perdere la capacità di farne a meno. Né più né meno di ciò che in medicina viene definito come ‘acquisizione di una forma di dipendenza‘.
Ho voluto utilizzare l’esempio dell’automobile perché è quello col quale ho maggiore familiarità, ma considerazioni analoghe possono essere sviluppate per l’intrattenimento televisivo che ci aliena dagli altri (lo scrittore David Foster Wallace ha confessato in un’intervista di aver sofferto di ‘dipendenza da intrattenimento’, situazione narrata in chiave paradossale nel suo monumentale capolavoro “Infinite Jest”), per l’uso dei Social Network in alternativa al contatto interpersonale non mediato, per tutte le situazioni in cui sostituiamo il possesso e l’uso di oggetti, anche immateriali, alla vita relazionale.
Un processo iniziato per ragioni di necessità legate alla sopravvivenza che ci ha col tempo preso la mano, subendo un’impennata con la rivoluzione industriale, la cui evoluzione terminale consiste nell’attuale ‘società dei consumi’: una bolla temporale caratterizzata da accumulo compulsivo, sovrappopolazione e conseguente devastazione ambientale. Tre fra le attività che alla nostra specie riescono meglio.
La bomba demografica, che fine ha fatto?
La Bomba Demografica, prima di essere un modo di dire, fu il titolo di un best-seller dell’ambientalismo prima maniera. Uscito nel 1968, cominciava con questa frase: “La battaglia per nutrire l’intera umanità è persa. Durante gli anni ’70 centinaia di milioni di persone moriranno di fame, qualunque drastico programma venga messo in atto adesso”. E continuava sullo stesso tono.
Fra l’altro, ispirò un famosissimo film di fantascienza: “Soylent Green”, uscito in Italia col titolo “2022: i sopravvissuti”
Il film era bello, ma il pronostico sbagliato. Gli anni ‘70 segnarono anzi la fine delle grandi carestie post-belliche che avevano ucciso non centinaia, ma decine di milioni di persone. Di carestie ce ne furono anche dopo, beninteso, ma assai meno gravi e dovute assai più a questioni politiche ed economiche che ad un’insufficiente produzione agricola mondiale.
Ma Paul Ehrlich, autore del libro, continuò a gufare e nel 1980 si scontrò con Julian L. Simon. Un economista che diceva cose tipo: “Le condizioni di vita umane miglioreranno sempre in tutti campi materiali. Qualunque sia il tasso di crescita della popolazione,
storicamente, la disponibilità di cibo è cresciuta alla stessa velocità, se non di più”.
Ehrlich scommise che fra il 1980 ed il 1990 il prezzo di cromo, rame, nickel, stagno e tungsteno sarebbe aumentato in conseguenza della crescita demografica e, quindi, dei consumi.
Perse. Malgrado l’aumento di quasi 1 miliardo di persone in un solo decennio, il tasso di crescita produttiva fu ancora superiore ed il prezzo delle materie prime (e del cibo) diminuì. Simon vinse la scommessa.
Grande festa e definitiva archiviazione della questione “sovrappopolazione” che, nel frattempo, era diventata molto “politicamente scorretta”. Gli ambientalisti ripiegarono sulla trincea “Il problema sono i consumi e non le persone” e lo spettro del reverendo Malthus fu per l’ennesima volta esorcizzato.
Ma ci sono spettri che hanno la capacità di risaltare fuori ogni volta che si pensa di essersene sbarazzati.
Del resto, nel 1798 il reverendo aveva osservato alcuni semplici dati di fatto.
Il primo era che i poveri avevano l’abitudine di fare più figli di quelli che potevano mantenere. Ne dedusse che, se non si riusciva ad insegnare alla gente a controllare la propria riproduzione, non sarebbe stato possibile sconfiggere la povertà.
Il secondo era che la disponibilità di cibo cresceva più lentamente della popolazione. Ciò creava una situazione da cui si poteva uscire in solo due modi: o una carestia, o un’emigrazione di massa che avrebbe spazzato via i “selvaggi delle Americhe”.
Entrambe le cose accaddero puntualmente e di più ancora. Infatti, la strabordante popolazione europea sommerse non solo gli amerindi, ma travolse anche gli australiani e parecchi popoli dell’Asia centrale, come i Circassi.
Fra un bagno di sangue ed uno di folla, comunque la crisi globale su superata. Nel senso che dopo ci furono un sacco di carestie gravissime, ma nessuna tale da avere conseguenze globali.
Del resto, da sempre la carestie locali hanno rappresentato uno dei metodi più efficaci per superare le crisi di sovrappopolazione. A ben vedere, il fatto che gli europei, invece di crepare a casa propria, abbiano invaso il modo è una parziale anomalia, legata al fatto che hanno avuto i mezzi tecnici per farlo (navi a vapore e armi da fuoco moderne). Prima di noi lo avevano già fatto altri, ad esempio gli Unni, a più riprese. Del resto, anche le migrazioni da massa attuali si verificano perché i paesi-obbiettivo o lo consentono (almeno in parte), o non hanno i mezzi per impedirlo.
Comunque sia, negli anni ’60 il problema si ripropose e stavolta non c’erano continenti vuoti o vuotabili in cui sfogare il surplus di gente. Ehrlich e molti altri ne conclusero che una morìa generale era inevitabile.
Dove hanno sbagliato? Semplice: avevano sottovalutato le potenzialità del petrolio. La “Rivoluzione Verde” consistette infatti nella capillare diffusione di una serie di tecnologie che, in termini energetici, misero gli umani in grado di mangiare petrolio e secondariamente metano. Brutto? Si, ma certamente meno che morire di fame.
Il guaio fu che, non solo accadde esattamente il contrario di quello che aveva detto Ehrlich. Accadde anche esattamente quello che aveva previsto Norman Borlaug che era stato esplicito.
La rivoluzione verde, aveva detto, regalava all’umanità il tempo di una generazione. Se questo tempo non fosse stato impiegato per stabilizzare la popolazione, sarebbe stato un disastro senza precedenti. Ed il tasso di crescita demografica aumentò vertiginosamente, per arrivare probabilmente al picco proprio in questi anni.
Dunque eccoci di nuovo a fare i conti con il fastidioso fantasma del reverendo.
Per ora non sta mancando cibo a livello globale. Anche se il numero di persone denutrite sta aumentando rapidamente, è vero che se ci fossero meno sprechi ed un più efficiente sistema di distribuzione, oltre che meno guerre e disparità, da mangiare per tutti ce ne sarebbe. Ed è anche vero che il tasso di natalità sta declinando dappertutto, lasciando intravedere la possibilità di una stabilizzazione spontanea fra i 9 e i 10 miliardi di persone, verso la metà di questo secolo.
Ma allora perché preoccuparsi?
Per una semplicissima ragione: la popolazione attuale supera già la capacità di carico del pianeta PERLOMENO del 50%, probabilmente molto di più.
Ne è una prova definitiva il fatto che stiamo assistendo ad un’accelerazione vertiginosa di tutti i processi di degrado dell’ecosistema globale. Che vuole anche dire: processi di riduzione della capacità di carico.
Per essere chiari, per vivere stiamo distruggendo molto rapidamente non solo i fondamentali di qualunque possibile economia, ma anche i presupposti per l’esistenza di una vita biologica sulla Terra. Chiaro il concetto?
Per di più, il nostro alimento principale, il petrolio, comincia ad avere dei costi energetici rapidamente crescenti. Cioè ci vuole sempre più petrolio per estrarre e raffinare il petrolio. Il rischio che cominci a scarseggiare di qui a poco è quindi concreto.
Allora la bomba demografica scoppia?
Dipende. Molto, molto indicativamente direi che sono possibili tre scenari-base.
Scenario 1 – Le tendenze attuali in termini di crescita della produttività, crescita demografica e distruzione della Biosfera rimangono sostanzialmente inalterate. I 4 cavalieri non ce li toglie di dosso nessuno. Non sappiamo quando e come, ma arrivano di sicuro.
Scenario 2 – Si trova il sistema di aumentare vertiginosamente la produttività agricola e industriale, pur riducendo drasticamente tutte le forme di inquinamento e, contemporaneamente, si stabilizza la popolazione umana. Insomma quello che avremmo dovuto fare 50 anni fa. Molti dicono che è possibile, ma io sono scettico. Nessuna delle tante tecnologie attualmente in concorso per il salvifico ruolo ha le potenzialità produttive che aveva a suo tempo il petrolio. Non in tempi così brevi, perlomeno. Inoltre rimarrebbero aperte le questioni demografiche e della distruzione della Biosfera che nessuno ci sta spiegando come si pensa di sistemare.
Scenario 3 – Tutte le risorse disponibili vengono investite nella conservazione/recupero delle tre “conditio sine qua non” per l’esistenza di una qualunque civiltà: Fertilità, Acqua e Biodiversità. Si lascia che il tasso di mortalità aumenti in modo non drammatico e, nel frattempo, si spinge il rallentamento della natalità in quelle zone dove è ancora molto alta. Con molta fortuna, prima della metà del secolo la popolazione mondiale potrebbe cominciare a declinare in maniera abbastanza rapida, ma quieta. Senza catastrofi apocalittiche. Se nel frattempo fossimo riusciti a conservare una quota sufficiente di biosfera, gli ecosistemi potrebbero lentamente recuperare, almeno in parte, tendendo ad un qualche tipo di parziale equilibrio. Questo significherebbe la possibilità per i nostri discendenti di costruire nuove civiltà. Senza petrolio è possibile, senza acqua, terra e biodiversità invece no.
Si tratta di una possibilità piuttosto remota, ma a mio giudizio già molto più probabile dello scenario 2, anche se molto meno seducente.
Comunque, secondo voi, a quale di questi tre scenari stanno lavorando i governi e quasi tutte le istituzioni del mondo?
La fine dell’economia: che ne è stato della profezia di Keynes?
Le profezie sono sempre piaciute, sia quelle pessimiste che quelle ottimiste. Fra queste ultime, una poco nota la dobbiamo ad un personaggio che oggi va di gran moda: nientedimeno che Lord John Maynard Keynes.
Mi riferisco ad una sua conferenza del 1928 (pubblicata nel 1930) dal titolo:”Quali saranno le possibilità economiche dei nostri pronipoti?” Poiché quei pronipoti siamo noi, penso che sia interessante rileggere quelle pagine.
In sintesi, Keynes sostiene che un vero progresso cominciò solo con la massiccia importazione di oro ed argento saccheggiati nel Nuovo Mondo durante il XVI secolo. Circa un secolo più tardi, cominciò la grande èra del progresso tecnologico, con un numero incalcolabile di grandi invenzioni e lo sviluppo di ogni tipo di macchine.
Il risultato fu un enorme incremento della popolazione mondiale e, dunque, dei consumi. Specialmente in Europa ed negli Stati Uniti il tenore di vita quadruplicò ed il capitale centuplicò.
Punto importante, Keynes si aspettava che, a quel punto, la popolazione globale tendesse a stabilizzarsi sui 2 miliardi circa. Mentre sia il miglioramento tecnologico che l’accumulo di capitale avrebbero continuato a crescere in maniera esponenziale.
Questo straordinario progresso, prevedeva, avrebbe creato un serio problema di disoccupazione, ma si sarebbe trattato di una fase temporanea. Nel giro di un secolo da allora (dunque all’incirca adesso), il tenore di vita nei paesi avanzati sarebbe stato tale che l’economia avrebbe definitivamente cessato di interessare alla gente, ma attenzione! Solo a condizione che nel frattempo non si fossero verificate né grosse guerre, né grossi incrementi di popolazione.
Quello che mi ha colpito del discorso è che non vi si fa neppure un minimo cenno alla disponibilità di risorse (energetiche e non). E neppure alla possibilità che l’alterazione degli ecosistemi possa portare a controindicazioni gravi, finanche catastrofiche.
In sintesi, colpisce la totale assenza di ogni riferimento alla legge dei “ritorni decrescenti” che, peraltro, il nostro conosceva benissimo.
La seconda parte della conferenza si concentra sulle conseguenze sociali di questo straordinario benessere.
In particolare, Keynes paventa il rischio che il rapido venir meno di preoccupazioni e necessità pratiche possa provocare dei “crolli nervosi” in molte persone. Analogamente a quanto, secondo lui, stava già allora accadendo alle donne della buona borghesia occidentale. Infelici perché la ricchezza le aveva private di divertimenti quali pulire, lavare, cucinare, accudire i figli. (Senza nulla togliere al piacere di accudire una famiglia, mi piacerebbe sapere cosa pensasse di questo Lady Keynes).
Dunque, prosegue l’insigne economista, sarebbe stato necessario ancora per molto tempo mantenere un minimo di orario lavorativo. Suggeriva che, probabilmente, 3 ore al giorno sarebbero state sufficienti.
Ma annunciava anche cambiamenti ben più importanti! Una volta che l’accumulo di denaro fosse stato tale da perdere la sua importanza sociale, l’umanità avrebbe finalmente potuto sbarazzarsi dell’ipocrisia con cui si esaltano come virtù i vizi peggiori.
“Saremo liberi di tornare ad apprezzare i principi religiosi e le virtù tradizionali. Di tornare a considerare che l’avarizia è un vizio, che l’usura è un crimine, che l’amore per i soldi è detestabile. Potremmo tornare a valorizzare gli scopi più dei mezzi e preferire il buono ed il bello all’utile. Ad apprezzare le deliziose persone che sanno metter gioia nella vita propria ed altri.”
“Ma attenzione. Tutto questo non ancora. Per altri cento anni (dunque all’incirca fino ai giorni nostri) dobbiamo pretendere da noi stessi e dagli altri che il giusto sia sbagliato e viceversa perché l’errore è utile e il giusto non lo è. Bisogna che avarizia ed usura continuino ad essere i nostri dei ancora per un poco, perché solo loro possono condurci fuori dal tunnel del bisogno, alla luce del benessere.”
Secondo Keynes, la velocità di avvicinamento a questo bengodi sarebbe stata governata da quattro cose: “La capacità di controllo della popolazione, la determinazione nell’evitare guerre e rivolte, la volontà di dare alla scienza una direzione propriamente scientifica, il margine di accumulo al netto dei consumi.”
A difesa di Keynes, bisogna dire che, a pensarci bene, qualche grossa guerra nel frattempo c’è stata. E che la popolazione umana sia più che triplicata spiega sicuramente molti dei nostri attuali problemi. Ma chissà cosa direbbe oggi se potesse vedere dove la smodata avidità sta portando i pronipoti di cui vagheggiava?
La cause della corruzione
La corruzione ha certamente molto a che fare con l’ingloriosa fine delle società. La corruzione é un fenomeno che alimenta se stesso riducendo l’efficienza dell’amministrazione, cosa che favorisce la corruzione e via di seguito, come ben illustrato in un recente post da Pierfranceschi.
Come sempre quando si ha a che fare con dei fenomeni complessi, la domanda se è nato prima l’uovo oppure la gallina rischia di non avere senso. Tuttavia, ci sono degli elementi che più di altri possono dare l’avvio a siffatti circoli viziosi (alias retroazioni positive e forzanti in termini scientifici).
Le diverse dimensioni della corruzione.
La corruzione in senso stretto è la classica “bustarella”, ma ne esistono altre forme, meno violente, ma anche molto più diffuse.
Intanto abbiamo spesso il caso di funzionari ed impiegati che fanno, o non fanno, determinate cose non in cambio di soldi sonanti, ma per procacciarsi utili benevolenze. Ad esempio, il dirigente che insabbia una pratica non gradita ad uno che può influenzare la sua carriera, o viceversa.
Un’altra forma molto diffusa è favorire amici e parenti, variante chiamata “nepotismo”. Ma in effetti questa forma non sempre è nefasta. E’ infatti abbastanza naturale preferire di lavorare con chi si conosce e si sa come lavora. Mettiamoci poi nei panni di qualcuno che, per esempio, ha lavorato per anni a gratis con tale professore e poi, quando finalmente si libera un posto, gli passa davanti un altro che, semplicemente, ha avuto un colpo di fortuna al concorso.
Il problema si pone quindi soprattutto quando questa radicata abitudine viene gestita per piazzare degli incapaci in posti di responsabilità. Semplicemente perché fanno comodo a chi comanda più di loro. Diciamo che è un’arma a doppio taglio i cui effetti dipendono da come la si adopera.
Ma la forma di corruzione più diffusa e nefasta e quella che è anche perfettamente legale e che, con termine tecnico, è chiamata “paraculismo”. Vale a dire, usare il potere conferito dal proprio incarico non per far funzionare qualcosa, bensì per tenere bene al calduccio le natiche del soggetto. Come se lo stipendio fosse qualcosa di dovuto e non qualcosa che deve essere guadagnato. E’ particolarmente nefasta perché generalizzata, ma anche perché costituisce la matrice in cui facilmente si sviluppano forme più perverse di corruzione.
Prima di tutto una questione di legittimità
In una società funzionale, la classe dirigente comanda perché un vasto numero di persone si riconoscono in dovere di ubbidirgli. È quello che si chiama legittimità. Può avere fondamento in un’infinità di narrative diverse, ma alla fine funziona finché la gente pensa che i loro capi abbiano a cuore l’interesse comune. Che magari sacrifichino i loro gregari, ma non per disinteresse, ma perché è necessario per un bene ancor superiore.
Si vede bene in condizioni di stress estremo, come in combattimento. I soldati si fidano dei loro ufficiali fino a farsi uccidere. Ma se pensano che i loro superiori si disinteressino di loro e del loro sacrificio, cessano immediatamente di fidarsene e di ubbidire. Smettono di pensare a combattere e cominciano a pensare a cavarsela. Se possono disertano. Non a caso, la prima cosa che si insegna ad un ufficiale è come guadagnare e mantenere la fiducia della truppa. Cose semplici, ma essenziali come preoccuparsi delle loro necessità spicciole più che delle proprie e dimostrare di essere disposti a correre rischi superiori a quelli richiesti. Non a caso, in ogni guerra, la mortalità degli ufficiali è percentualmente più alta di quella dei soldati.
Nella vita civile tutto è più mitigato ed ovattato, ma fondamentalmente funziona allo stesso modo. Un impiegato che si sente apprezzato dal suo dirigente non esita a fare straordinari non pagati, pur di portare a buon fine un progetto importante. Lo stesso individuo, se pensa che il principale tiri l’acqua a l suo mulino e basta, farà tutto il possibile per imboscarsi, dimenticando che il suo stipendio non lo paga il dirigente, bensì il contribuente.
E il fenomeno che una volta si definiva con l’adagio: “Il pesce puzza dalla testa”.
Si badi bene che non è affatto detto che una classe dirigente altamente legittimata faccia davvero il bene della sua gente. Semplicemente, la legittimità conferisce efficienza operativa. Si pensi alla Germania nazista, per farsi un’idea degli effetti perversi che la legittimità può avere.
Comunque, l’egoismo e/o l’incapacità cronica erodono la legittimità. In questo caso rimangono in piedi due opzioni per mantenere in moto la macchina pubblica: il tornaconto personale e la paura. Le due cose possono anche in parte coesistere, ma di solito il primo prevale nelle prime fasi di disintegrazione di una società; la seconda nelle ultime. Il difetto è che entrambe aumentano i costi e riducono l’efficienza.
Nel caso del tornaconto personale, è infatti necessario che ogni funzionario od impiegato trovi il proprio vantaggio ad ogni passaggio. Non necessariamente una bustarella od un buon posto. Magari solo una seccatura in meno o fregare qualche minuto sull’orario che, moltiplicato per decine di migliaia di persone, rendono il meccanismo sempre più impastato. Né nuove regole e controlli possono risolvere la situazione, se coloro che le dovranno applicare saranno ancora guidati dall’interesse personale, anziché de quello collettivo. Direi che noi oggi siamo un fulgido esempio in questo campo.
La paura comporta la messa in opera di sistemi di controllo e repressione che a loro volta dovranno essere controllati e così via. Il modo con cui si sono avvitati su sé stessi i regimi del “socialismo reale” è abbastanza emblematico da questo punto di vista.
Anche noi abbiamo perso la guerra fredda?
La corruzione (in senso lato) c’è sempre stata in tutte le società, ma non nella stessa misura. In Europa, ha avuto un forte impulso a partire dagli anni ‘90. Le forzanti che hanno contribuito ad accelerare il fenomeno sono parecchie. A me ne vengono in mente due: la scomparsa di un pericolo comune e la scomparsa di un limite preciso fra affare e malaffare.
Il primo punto è raramente citato, ma fondamentale. Se temere la propria classe dirigente di solito ha un effetto deprimente sulle società (con buona pace di Machiavelli), è però vero che la paura di un nemico esterno ha di solito l’effetto contrario. Una minaccia esterna ha di solito il potere di aggregare la gente e di far passare il bene comune (reale o presunto che sia) davanti al proprio. Non a caso i governi in difficoltà spesso virano verso un nazionalismo tanto più esacerbato, quanto maggiore è il loro bisogno di rinverdire la propria legittimità. Talvolta non si esita neppure a creare degli incidenti ad hoc più o meno gravi. Più spesso si sfruttano le occasioni offerte dall’imbecillità altrui, come attacchi terroristici, incidenti diplomatici ed altro. Naturalmente, la cosa può funzionare o meno, ma il principio resta valido.
Per 40 anni l’unico pericolo che la maggioranza degli occidentali ha temuto è stata l’Unione Sovietica. Pericolo reale e consistente che la propaganda ha poi saputo gestire molto bene. Ma soprattutto un pericolo in grado di imporre dei limiti perfino all’avidità ed all’egoismo della classe dirigente economica. Del resto, oltre cortina, il pericolo di un’invasione della NATO era parimenti il collante che contribuiva a tenere insieme una società sempre più disfunzionale, sia pure con uno stile diverso. Quando è venuto meno, neppure la Stasi ed il KGB sono più bastate ad evitare la disintegrazione dell’impero.
Cessato il pericolo, il sistema sovietico si è infatti disintegrato e per una decina di anni la nicchia ecologica lasciata libera dallo stato è sta riempita da una miriade di organizzazioni mafiose o semi-mafiose. Perlopiù nate da pezzi della macchina sovietica che si sono messi a lavorare in proprio. E, privi oramai di ogni remora, hanno perlopiù trovato utile svendere l’eredità sovietica a imprenditori e faccendieri occidentali che non hanno esitato a fare man bassa. Al di là dell’errore geo-strategico irreparabile, questo ha creato una contiguità assoluta fra affaristi delle due ex-sponde, finalmente affratellati dalla possibilità di saccheggiare impunemente intere nazioni.
Una situazione cui si è potuto mettere solo un parziale e tardivo rimedio e che, fra le altre conseguenze, ha contribuito non poco a rendere molto evanescente la linea di demarcazione tra affari leciti ed illeciti. Tanto ad est, quanto ad ovest.
Il cane e le zecche.
Un cane in buona salute che vive in campagna ha sempre qualche pulce e di tanto in tanto una zecca. Gli danno fastidio, ma non più di questo. Ma se un cane si ammala, facilmente verrà attaccato dai parassiti in modo tanto più massiccio, quanto più grave è la sua malattia. Ed il gran numero di succhiasangue lo debiliteranno, così da farlo aggravare, fino a morire. In altre parole, come ogni buon contadino sa, i parassiti hanno una funzione ecologica precisa: finire i soggetti debilitati. Togliere i pidocchi ad una pianta o le zecche ad un cane gli fa certo bene, ma se non lo si guarisce dalla sua malattia profonda, torneranno e lo finiranno.
Qualcosa del genere , credo, succeda alle società umane.