di Jacopo Simonetta
In Siria è cominciata una nuova fase di una guerra che sembra voler durare ancora parecchi anni. In Iraq stanno ancora decidendo con chi ammazzarsi al prossimo giro. Secondo le migliori tradizioni locali, la situazione è caotica e continuamente cangiante. Le tabelle qui riportate sono quindi necessariamente molto approssimative.
Riassunto molto schematico delle puntate precedenti.
Iraq
Qui ci occuperemo della Siria, ma un cenno all’Iraq è necessario.
La guerra in Iraq cominciò nell’ormai remoto 2003 con l’invasione americana e, fra alterne vicende, è ancora lontana dall’essere conclusa. Qui ci interessa che, nel 2014, la guerra civile irachena e quella siriana si saldarono in una guerra unica per il dilagare dell’ISIL in entrambi i paesi. Anche in Iraq il “califfo” riuscì a far coalizzare tutti contro di lui, ma con giochi di alleanza diverse dal teatro siriano. Ad esempio, la Turchia nemica dei curdi in Siria, ne è alleata (in parte) in Iraq; mentre l’Iran è arcinemico degli USA su tutti i fronti, meno in Iraq dove finora sono stati alleati.
Altra peculiarità irachena è che ci sono due partiti e due milizie curde che fanno capo ai due clan principali: i Barzani ed i Talabani (che non c’entrano niente con i talebani afghani). I Barzani hanno commesso l’errore fatale di dichiarare l’indipendenza del Kurdistan iracheno, ottenendo il risultato di inimicarsi prontamente tutte, ma proprio tutte le altri parti in causa.
I Talabani, hanno reagito consegnando senza combattere la città ed i campi pozzi di Kirkuk ai governativi, pare in cambio di un accordo secondo cui il territorio curdo rimane formalmente sotto il controllo di Baghdad, ma è di fatto indipendente. Come del resto è stato dal 2003 ad oggi.
Un successivo attacco dei governativi verso Ebril è stato respinto e, per ora, non è successo altro di importante, ma è chiaro che la guerra non è finita. Semplicemente i vari contendenti devono riprendere fiato e decidere contro chi combattere.
Siria
Prodromi. La Sira ha sempre sofferto di violente divisioni interne che hanno portato più volte a rivolte contro la minoranza alawita al potere. Tutte rapidamente sedate con alcune migliaia di morti. Su questo retroterra storico, negli anni 2000 si sono innestati due fatti nuovi: una siccità senza precedenti e il calo della produzione petrolifera al di sotto dei consumi interni. Questi due fattori hanno fatto precipitare la situazione in tutto il paese.
La fase 1 cominciò nel 2011, con una serie di manifestazioni scatenate da un’ondata di rincari dei generi di prima necessità. La repressione del regime fu pronta e feroce, ma le proteste si diffusero a gran parte del paese in un crescendo di violenza che divenne guerra civile. Gli USA cercarono di cogliere l’occasione di intervenire per sostituire Assad con un governo loro tributario, ma non poterono per il veto di Russia e Cina. Così ripiegarono sul sostegno a diverse milizie ribelli, perlopiù raccolte sotto l’etichetta di ESIL (alias FSA) che, in realtà, riuniva centinaia di milizie perlopiù autonome. I combattimenti si diffusero a gran parte del paese, mentre gradualmente emergeva come forza ribelle principale Al Nousra: una costola di Al Qaida che conquistò parecchio territorio sia a spese dei governativi, sia a spese di altre formazioni ribelli.
La fase 2 cominciò nel 2014, con la repentina apparizione dell’ISIL (alias ISIS, alias DAESH). Molto rapidamente gli “uomini neri” divennero la forza principale in campo, sconfiggendo ripetutamente sia i governativi che gli altri gruppi ribelli. Fra l’altro, in questa fase di rapida espansione, l’ISIL conquistò molte posizioni all’ESIL, impossessandosi degli arsenali forniti dagli USA e dagli altri paesi occidentali.
La rapidità e la violenza con cui l’ISIL si impose non è spiegabile altrimenti che con un fortissimo sostegno da parte di una potenza straniera ed il candidato più probabile è l’Arabia Saudita, magari con il sostegno delle altre petrocrazie sunnite. Il ruolo attivo della Turchia è più dubbio, ma di sicuro questa non ha mai attaccato seriamente DAESH, se non quando questo era già stato sconfitto e solo per contrastare l’avanzata dei curdi.
Questa fase culminò con la nascita del Califfato. Un errore strategico mortale che costò la sconfitta e (probabilmente) la vita ad al Baghdadi. Proclamarsi califfo significa infatti rivendicare un potere diretto su tutti i governanti islamici del mondo. Una cosa dura da digerire anche per i suoi occulti sostenitori che, infatti, cominciarono a sostenerlo sempre di meno.
La fase 3 cominciò fra il 2015 ed il 2016. Prima con il progressivo rafforzamento dell’intervento occidentale e poi con quello, indipendente ma coordinato, della Russia e dell’Iran. Gli attentati a Parigi e a Tartus (base russa in Siria), oltre alle atrocità gratuite (commesse anche dagli altri contendenti, ma in maniera meno sistematica e spettacolare) portarono ad una serie di accordi fra la coalizione USA, la Russia, la Turchia e l’Iran. La guerra di “tutti contro tutti” delle fasi precedenti diventò così una guerra di tutti contro l’ISIL che ne uscì sconfitto, ma non ancora annientato.
Da questa fase i principali vincitori locali sono stati i governativi di Assad ed i curdi. Ma se Assad ha recuperato i due terzi circa del territorio, ha però perso buona parte del suo potere a favore dell’Iran che, tramite Hezbollah, controlla parti strategiche del paese e dal cui sostegno dipende in buona misura la tenuta del governo.
I principali vincitori internazionali sono stati l’Iran (che oramai controlla di fatto parte del territorio siriano), la Russia (che ha rafforzato le sue basi e recuperato un ruolo politico di primo piano nel settore) e gli USA (tramite l’alleanza con i curdi che controllano circa 1/3 della Siria).
La fase 4 è appena cominciata con una sorpresa. Molti si aspettavano una “resa dei conti” fra i governativi sostenuti dall’Iran ed i curdi sostenuti dagli USA, ma la Turchia è intervenuta a sparigliare le carte, attaccando direttamente il territorio curdo.
Nel frattempo, continuano i cobattimenti ed i bombardamenti dei governativi conto le sacche di resistenza in varie parti del paese, così come gli attentati terroristici.
Sviluppi?
In Iraq l’incognita principale riguarda il Kurdistan. L’unica cosa che trova d’accordo i governi di Turchia, Iran ed Iraq è infatti evitare la nascita di uno stato curdo. Proprio per questo, gli americani hanno interesse a sostenerlo, ma si trovano in una fase di debolezza politica senza precedenti da cento anni a questa parte. ”America first”, nell’arena politica globale, è di fatto “America Last” ed i curdi potrebbero pagarne il prezzo. Inoltre, rimane da vedere se i Barzani ed i Talabani troveranno un accordo o se combatteranno fra loro; entrambe le ipotesi sono possibili.
Infine, non si parla più della robusta minoranza sunnita che per decenni ha governato il paese (per inciso, anche i curdi sono sunniti, anche se il loro governo è comunista). E’ già stata sconfitta due volte, ma non è detto che, fra qualche tempo, non ritenti una rivincita.
In Siria, l’attacco turco non solo rimette in discussione tutto il già complicato sistema di alleanza ed inimicizie tra fazioni siriane, ma rimette gravemente in discussione anche i rapporti di alleanza (già molto tesi) fra NATO e Turchia. Oltre che aprire scenari di una possibile guerra civile in Turchia.
Anche i questo caso, la debolezza americana gioca contro i comunisti curdi che si trovano sostanzialmente soli, ma la politica mediorienatale ci ha abituati alle sorprese. Per esempio, non è da escludere un accordo fra curdi e governativi per uno status di indipendenza sostanziale, ma non formale. E se, nel frattempo, la NATO decidesse che della Turchia non c’è più da fidarsi, la posizione di Erdoghan diventerebbe molto spinosa. Vedremo. Personalmente credo che molto dipenderà da quanto l’offensiva turca miri davvero ad occupare tutto o gran parte del Kurdistan siriano. Probabilmente, alla NATO stanno discutendo quanti chilometri di Siria concedere all’alleato (ex alleato?). Non è da escludere che si tratti in gran parte almeno di un bluff in vista delle prossime elezioni che si presentano particolarmente difficili per il “sultano”.
Di tutti gli scenari possibili, il peggiore è infatti quello di un dilagare della guerra in Turchia. In cerca del sostegno dei nazionalisti, Erdogan ha infatti fatto di tutto per rilanciare la guerriglia interna del PKK, ma i curdi turchi sono 18 milioni. Inoltre, anche se l’epurazione contri i kemalisti ed i goulemisti è stata pressoché totale, ad Istambul e nelle città occidentali la popolarità di Erdogan è ai minimi storici, mentre il suo primato è insidiato anche da destra da Meral Akşener (leader di un nuovo partito nazionalista laico, assolutamente contrario all’islamizzazione voluta dal “sultano”). Erdogan potrebbe perdere le elezioni, ma potrebbe anche vincerle, con o senza brogli evidenti. In tutti i casi, la possibilità di una parziale implosione della Turchia non può essere esclusa.
Le conseguenze sarebbero devastanti anche per l’Europa, non solo per la definitiva perdita del bastione medio-orientale, ma anche perché una parte consistente degli 80 milioni di turchi (più 3,5 milioni di rifugiati siriani) cercherebbero riparo da noi. Abbiamo già deciso cosa fare e come in un caso simile? Se no, sarà il caso di pensarci.