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La trappola della scimmia

Monkey trap
Da diversi giorni vado ragionando sulle trappole per scimmie. Non so se l’idea mi sia arrivata da Jacopo, che ne aveva scritto pochi mesi addietro, o stesse lì già da tempo. Fatto sta che l’ho in testa da un po’ e, riflettendoci, continua a trasmettermi con prepotenza una sensazione di spiacevole familiarità. Il mio amico Paolo è solito affermare che, se si vogliono capire i comportamenti umani, basta pensare alle scimmie e tutto trova spiegazione. Dunque, che cosa sta tentando di raccontarmi questa idea, su di me e sul resto dell’umanità?

La trappola per le scimmie sfrutta un meccanismo psicologico molto sottile. Il cacciatore predispone un contenitore, vaso o bottiglia, o anche la semplice cavità di un tronco, con un’apertura da un lato, ampia a sufficienza perché la scimmia possa infilarci la zampa, quindi inserisce nell’apertura un frutto all’incirca della stessa grandezza dell’orifizio, e si apposta a breve distanza. La scimmia infila la mano nell’apertura, afferra il frutto, ma a questo punto non riesce più a sfilare l’arto. Potrebbe farlo facilmente se decidesse di lasciare andare l’oggetto afferrato, ma lo desidera troppo, quindi rimane imprigionata per il tempo necessario alla cattura.

Una delle costanti culturali della specie umana, fin dalla notte dei tempi, è il tentativo di rimarcare la nostra differenza dal resto del regno animale. Dall’antichità più remota l’uomo descrive sé stesso come apice della creazione divina, dominatore del mondo, cui tutte le altre specie viventi devono essere asservite. Così ce la raccontiamo da millenni, confidando che il ripetere sufficientemente a lungo una bugia la trasformi magicamente in verità. Abbiamo dovuto attendere la metà dell’ottocento perché l’accumularsi di evidenze, ed il genio di Charles Darwin, ricostruissero la realtà di una specie tra tante altre, caratterizzata unicamente dallo sviluppo evolutivo di un cervello di grandi dimensioni.

Ricollocato l’uomo ad animale tra altri animali ho pertanto cominciato a domandarmi quali e quanti parallelismi comportamentali fosse possibile sviluppare, analisi che mi ha condotto in tempi relativamente recenti all’idea di Domesticazione Umana ed all’analisi dei suoi perversi effetti. Ma l’intrappolamento della scimmia ci mostra qualcosa che va oltre la riduzione in cattività. Mostra come la nostra stessa avidità possa venire subdolamente ritorta contro di noi, portandoci in conclusione alla perdita della libertà.

Ovviamente per l’uomo non bastano un frutto ed una bottiglia, serve qualcosa di più complesso, ma l’esito finale è del tutto analogo. Proviamo quindi a sostituire al frutto i beni di consumo, ed alla bottiglia l’insieme delle regole sociali ed economiche, che conosciamo perfettamente, che accettiamo, ma il cui reale funzionamento sfugge ai più. Ci renderemo conto di come quotidianamente veniamo solleticati da ‘oggetti del desiderio’ che hanno sia un costo reale che un costo occulto. L’umorista Altan ce lo spiega efficacemente con questa fulminante vignetta.

AltanL’uomo moderno individua gli oggetti del proprio desiderio in accordo, per solito, con le convenzioni ed i valori condivisi dal gruppo sociale di cui fa parte. È la collettività con la quale ci relazioniamo a dettare i canoni comportamentali accettati ed i marker dello status sociale. Ogni cultura umana identifica gli indicatori di ricchezza, benessere e leadership, dai primitivi copricapi in piume d’uccello ai moderni yacht.

L’oggetto che più comunemente caratterizza l’attribuzione di status nelle economie occidentali, o se vogliamo quello più immediatamente riconoscibile, è al momento l’automobile. Non perché non ve ne siano di più diffusi (televisori, gioielli, gingilli elettronici) o più costosi (case, barche), ma semplicemente perché l’automobile si sposta con noi ed ha assunto nel tempo la funzione di un ‘secondo abito’, indossato ed esibito per raccontare quello che siamo (o che crediamo, o che vorremmo essere) agli altri.

Nella fase del desiderio l’automobile appare, alla scimmia umana, alla stregua di un frutto come tutti gli altri, forse solo un po’ più vistoso. Col tempo, tuttavia, diviene oggetto di uso quotidiano e finisce col modellare intorno a sé le nostre intere vite. Abituati a muoverci in macchina ogni altra forma di spostamento ci apparirà via via strana e poco familiare, inusuale, scomoda, oltre alla spiacevole sensazione di dover dipendere, per i nostri spostamenti, da modalità esterne ed al di fuori del nostro controllo. In più, vivendo l’automobile come un secondo abito, la sua assenza indurrà la sgradevole sensazione di andare in giro nudi, l’equivalente sociale del non possedere più uno status nettamente percepibile dagli altri.

L’automobilista compulsivo finisce con lo sviluppare, rispetto al proprio veicolo, una forma di simbiosi non troppo lontana dalla dipendenza psicologica, che culmina nell’incapacità di immaginare altre modalità di spostamento. Frequenterà di preferenza locali e centri commerciali facilmente raggiungibili in auto, o dove sia comodo parcheggiare. Sceglierà di vivere nei quartieri che consentono un comodo raggiungimento in automobile del posto di lavoro. Percepirà il mondo come una serie di luoghi puntiformi disarticolati, raggiungibili per mezzo di strade più o meno veloci, più o meno tortuose, più o meno faticose.

Privo di argini, tale processo ha come esito finale una condizione in cui le nostre intere esistenze ruotano intorno all’uso dell’oggetto automobile, fino al punto da renderci incapaci di concepire una vita in assenza di essa. Non sono tanto i costi, pur elevati, che l’automobile ci impone, a rappresentare la vera trappola, quanto la perdita della libertà di spostarci in maniere differenti, di frequentare luoghi diversi dai soliti, operata a livello spesso inconscio. Abbiamo ancora tutte queste potenzialità, ma ci manca la capacità immaginativa necessaria a metterle in pratica.

L’adesione in massa a questo modello di mobilità, operata come collettività ingenua ed entusiasta, ha finito col modellare l’intera organizzazione urbana e del territorio. L’automobile, o se vogliamo il fenomeno consumistico nel suo complesso, ha prodotto lo sprawl urbano, l’ipertrofia abitativa (case sempre più grandi abitate da sempre meno persone) la proliferazione di corridoi stradali pensati per alte velocità di percorrenza, l’ingombro di suolo pubblico per le necessità di sosta.

Nel corso degli anni, spazi sempre più estesi sono stati sottratti ad ogni possibile utilizzo sociale e destinati esclusivamente alla movimentazione ed alla sosta delle auto private, producendo la marginalizzazione di ogni altra attività, erodendo spazi alla mobilità leggera, agli spostamenti a piedi, al gioco dei bambini ed al riposo ed alla socialità degli anziani. Ciò ha reso le strade cittadine dei non-luoghi pericolosi, rumorosi, puzzolenti, ed il raggiungimento di spazi e realtà piacevoli da frequentare un lungo viaggio da affrontare forzatamente a bordo del proprio veicolo.

Come nella trappola della scimmia, pensando di afferrare l’oggetto automobile per possederlo abbiamo finito con l’esserne catturati e perdere la capacità di farne a meno. Né più né meno di ciò che in medicina viene definito come acquisizione di una forma di dipendenza.

Ho voluto utilizzare l’esempio dell’automobile perché è quello col quale ho maggiore familiarità, ma considerazioni analoghe possono essere sviluppate per l’intrattenimento televisivo che ci aliena dagli altri (lo scrittore David Foster Wallace ha confessato in un’intervista di aver sofferto di ‘dipendenza da intrattenimento’, situazione narrata in chiave paradossale nel suo monumentale capolavoro “Infinite Jest”), per l’uso dei Social Network in alternativa al contatto interpersonale non mediato, per tutte le situazioni in cui sostituiamo il possesso e l’uso di oggetti, anche immateriali, alla vita relazionale.

Un processo iniziato per ragioni di necessità legate alla sopravvivenza che ci ha col tempo preso la mano, subendo un’impennata con la rivoluzione industriale, la cui evoluzione terminale consiste nell’attuale ‘società dei consumi’: una bolla temporale caratterizzata da accumulo compulsivo, sovrappopolazione e conseguente devastazione ambientale. Tre fra le attività che alla nostra specie riescono meglio.

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Il plusvalore del caos urbano

Recentemente mi sono chiesto se ci fosse modo di quantificare l’eccesso di spesa per l’auto a Roma. L’idea di partenza è di provare a ragionare l’emergenza traffico dal punto di vista di chi ci guadagna. Nella città dove vivo, senza un motivo apparente, il numero di automobili pro-capite è molto più elevato rispetto a Londra, Parigi ed alle altre capitali europee.

Le cause che producono questa disparità sono tante e già discusse, quello che mi interessa capire ora è di che cifre stiamo parlando. In sostanza, dato che a Roma le deficienze del trasporto pubblico obbligano la popolazione a possedere più automobili, quanto vale questo ‘mercato aggiuntivo’ rappresentato dal surplus di auto che, se Roma fosse una città ben organizzata e funzionante, non avremmo bisogno di acquistare.

Navigando in rete in cerca di dati ho trovato un post del 2014 che propone le seguenti cifre: Roma: 930 veicoli ogni 1000 abitanti – Londra: 314 – Parigi (area metropolitana): 530. A spanne possiamo dire che le auto vendute a Roma sono, rispettivamente, il triplo di quelle vendute ai londinesi ed il doppio di quelle vendute ai parigini.

Il contesto urbano è importante perché è nelle città che i problemi di traffico obbligano ad un’efficiente rete di trasporto pubblico. Proprio grazie all’efficienza e ad una corretta gestione del trasporto pubblico nelle grandi città europee molte famiglie non sentono la necessità di possedere un’automobile.

In cifre assolute il dato è di 2.677.942 automobili nella sola provincia di Roma. Stando a questi numeri, se il trasporto pubblico romano fosse efficiente quanto quello parigino dovremmo conteggiare circa 1,3 milioni di autovetture in meno. Se fossimo ai livelli di Londra la cifra salirebbe a circa 1,8 milioni. Per trasformare queste cifre in soldoni occorre determinare l’incidenza annua del possesso di un’auto.

Quanto costa un’automobile? Quanto dura nel tempo? Alla prima domanda non è semplice rispondere, ma facendo una media tra utilitarie ed auto di lusso credo che si possa parlare di una cifra intorno ai 15.000€. La vita media di un’automobile è, parimenti, stimata in circa 10 anni. Il sito della Federconsumatori conferma quest’ordine di cifre valutando un ammortamento annuo di 1.500€ a veicolo.

Se moltiplichiamo i 1.500€ per gli 1,3 milioni di veicoli “in eccesso” rispetto a Parigi otteniamo una cifra molto prossima a 2 miliardi di euro. Il confronto con Londra porta tale cifra a 2 miliardi e 700 milioni. Tanto vale, ogni anno, per l’industria dell’auto, l’inefficienza del trasporto pubblico romano. Altrettanto, o poco meno, vale per il mercato delle assicurazioni. Il calcolo per il mercato dei combustibili è più complesso.

Sono cifre che, prese così, non hanno molto senso, tanto lontane risultano dalla nostra esperienza quotidiana. Proviamo a ragionarle in termini diversi. Prendiamo a confronto una casa. Quante case ci potremmo comprare con 2 miliardi di euro? Il costo medio di un appartamento a Roma è intorno ai 250.000€: la risposta è ottomila.

Considerando che in un appartamento vivono in media 2,5 persone tale cifra corrisponde ad una città di 20.000 abitanti. Il confronto con Londra porta questa cifra a 27.000, più o meno la popolazione di Assisi. Tanto vale l’inefficienza del trasporto pubblico a Roma per i soli fabbricanti di automobili: il valore immobiliare di una intera città come Assisi. Ogni anno. Altrettanto per il mercato assicurativo. Altrettanto (grossomodo) per il comparto petrolifero.

E torniamo quindi a quella famosa ‘deriva messicana’ già teorizzata: dove sta scritto che una società, una comunità, debba funzionare? Perché abbiamo questa idea che le città europee di base ‘funzionano’, e se c’è qualcosa che non va è solo una spiacevole casualità?

In questo caso la ‘casualità’ muove fiumi di denaro, e non ci vuole un genio per capire che una parte di questo denaro venga necessariamente reinvestito affinché tale utile ‘casualità’ continui a prodursi, è nella logica del mercato. E nel momento in cui la popolazione finisce con lo sposare questa logica, la generosità, la fantasia e l’onestà intellettuale di pochi ambientalisti non bastano più ad invertire la rotta.

carjam