L’enorme debito che ho nei confronti del pensiero di Charles Darwin consiste nell’acquisita consapevolezza che le trasformazioni si verificano sotto la spinta di necessità, non del caso. Le specie viventi, e parimenti le società, non evolvono se non in risposta ad un cambiamento profondo nelle condizioni di contorno. Se tale cambiamento non avviene le specie, le società, restano immobili.
L’umanità ha attraversato senza trasformazioni significative gli ultimi centomila anni, conducendo un’esistenza di cacciatori-raccoglitori, diffondendosi sulla maggior parte delle terre emerse del pianeta e dando vita a forme primitive di organizzazione sociale. Le principali trasformazioni si sono avute negli ultimi diecimila anni, in seguito alla domesticazione di forme animali e vegetali.
L’invenzione di allevamento ed agricoltura ci ha proiettati fuori dall’equilibrio instaurato con l’ambiente naturale, producendo una cascata di trasformazioni ed innovazioni: la regimentazione idrica, l’invenzione dell’aratro e delle prime macchine, la lavorazione di legno e metalli, l’aumentata disponibilità di energia (cibo, quindi lavoro umano ed animale) per comunità organizzate su larga scala.
Questo surplus di risorse ed energia ha prodotto, come conseguenza, i grandi imperi ed i grandi monumenti del passato. Gli imperatori dell’antichità sapevano bene di dover gestire il consumo di queste risorse, altrimenti l’avrebbe fatto qualcun altro al posto loro, e la soluzione al surplus fu l’erezione di monumenti alla propria grandezza, che le popolazioni percepivano come monumenti all’intera civiltà di cui essi stessi facevano parte.
In questa prospettiva è l’aumento di risorse disponibili, la momentanea ricchezza, ad innescare le trasformazioni sociali, a dar vita agli aggregati umani, alle città, ai regni, agli imperi. Ed è la cattiva gestione di questa estemporanea ricchezza, o il suo inevitabile esaurimento spontaneo, a causarne il collasso.
La crisi di una forma di approvvigionamento energetico produce, come diretta conseguenza, la ricerca di una fonte alternativa. Per millenni la forma di lavoro più utilizzata è stata quella muscolare, umana ed animale, che richiedeva come fonte energetica il cibo. A questa forma di forza lavoro si sono via via affiancate altre modalità, meccaniche, in grado di sfruttare disponibilità energetiche diverse da quelle alimentari.
La movimentazione di pesanti macine si è realizzata sfruttando l’energia potenziale dell’acqua in caduta, per mezzo di mulini idraulici. In qualche caso al posto dell’acqua si è usato il vento, già impiegato come propellente per viaggiare sull’acqua per mezzo di vele. Queste applicazioni erano però strettamente legate ai luoghi dove gli impianti risultavano originariamente localizzati.
La progressiva sostituzione nei macchinari delle parti in legno con equivalenti in metallo ha infine condotto alla possibilità di sfruttare una nuova forza lavoro: la pressione del vapore, e condotto all’epoca d’oro di una nuova fonte energetica: il carbone. Le macchine a vapore innescarono la rivoluzione industriale, rendendo disponibili quantità d’energia pro-capite prima di allora impensabili.
Riassumendo: una tribù di cacciatori-raccoglitori ha a disposizione solo la forza lavoro delle singole persone, e questa viene impiegata integralmente per la sopravvivenza e la fabbricazione di semplici utensili. Una città stato agricola ha parte della popolazione occupata nella produzione di cibo, in questo modo producendo un surplus di cibo in grado di alimentare altra popolazione impiegabile in attività accessorie (artigiani, artisti, sacerdoti, scienziati, militari).
Una civiltà industriale in grado di sfruttare fonti energetiche fossili ha una percentuale minima della popolazione impiegata nella produzione di cibo, ed una percentuale ben maggiore impiegata nella produzione di beni. La quantità di beni producibile comporta la necessità di una ulteriore trasformazione culturale e sociale.
Poiché, come già accennato prima, risulta sul breve termine premiato il soggetto in grado di realizzare il massimo consumo di risorse, qualunque civiltà deve sviluppare strategie dissipative in grado di massimizzare i propri consumi. Da un lato per avere un margine di creatività per sviluppare nuove idee e tecnologie, dall’altro per impedire che le stesse risorse siano rese disponibili alle civiltà antagoniste.
Strategie dissipative che hanno prodotto l’opulenza della civiltà egizia prima e romana dopo. Che hanno visto una crisi temporanea nel medioevo dalla quale si è poi usciti con la rivoluzione industriale. L’enorme disponibilità energetica pro-capite resa disponibile dallo sfruttamento petrolifero si è infine tradotta in un modello culturale e sociale improntato al consumo sfrenato.
Come i grandi monumenti del passato, le città imperiali dell’antichità, furono il prodotto di una trasformazione epocale nella disponibilità di risorse, innescata dall’invenzione dell’agricoltura e dalla metallurgia, così l’automobile privata ed il consumismo sono state la risposta ad una disponibilità di energia pro-capite mai verificatasi prima su così larga scala nella storia dell’umanità.
Nella trasformazione culturale che ha accompagnato tale transizione è risultata funzionale l’invenzione di una nuova ‘idea del mondo’ caratterizzata dalla proiezione delle trasformazioni in atto nel vicino e lontano futuro dell’avventura umana. A distanza di diversi decenni potremmo chiederci come stia andando in realtà. La risposta è molto diversa dalle aspettative nel tempo maturate.
Tutta una serie di concause convergono nel produrre una progressiva riduzione della disponibilità energetica pro-capite. In primis la sovrappopolazione, conseguenza inevitabile dell’aumentata disponibilità di risorse, sta aumentando il denominatore dell’equazione più rapidamente di quanto aumenti il numeratore. Detta in maniera più spicciola, se in un arco di tempo la quantità di energia disponibile aumenta del 50% e la popolazione del 100%, alla fine ognuno avrà a disposizione meno energia, anche se il totale prodotto è superiore a prima.
Il secondo problema è che gran parte dell’apparente aumento di produzione energetica è annullato dalla riduzione dell’EROEI. Se anche la produzione mondiale di petrolio aumenta leggermente da un anno all’altro, quello che si riduce è il conto energetico netto, perché man mano che i pozzi si esauriscono l’estrazione di petrolio diventa via via più costosa.
Il terzo problema è che, ad oggi, non sono state individuate fonti energetiche, fossili o rinnovabili, con un bilancio energetico paragonabile a quello del petrolio all’inizio del ventesimo secolo (un valore di EROEI pari ad 1:100, ovvero 100 barili di petrolio estratti al costo di un solo barile). Possiamo mettere in opera centrali solari ed eoliche, ma non arriveremo mai più alla disponibilità energetica pro-capite degli anni ’50 e ’60 del secolo scorso.
Il quarto problema è che, al pari delle fonti fossili, anche la disponibilità di materie prime si va riducendo, le miniere sovrasfruttate rendono meno, le terre fertili si impoveriscono e degradano, i costi energetici di produzione aumentano. Queste quattro concause, come i quattro cavalieri dell’apocalisse, rendono ineluttabile un ripensamento delle aspettative globali riguardo alla disponibilità di ricchezza individuale.
La crisi attuale è solo l’avvisaglia di un declino generalizzato nella disponibilità di energia, materie prime e cibo che dovremo fronteggiare nei decenni a venire. Pretendere di affrontarla con gli strumenti culturali del positivismo illuminista, o con l’ideologia della ‘crescita indefinita’, che obnubila ogni analisi di natura economica è, a mio avviso, di una scelleratezza criminale.